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Il Santuario della Basilica di Pozzano

articolo a cura di Maurizio Cuomo

Il Santuario della Basilica di Pozzano

Il Santuario della Basilica di Pozzano (foto M. Cuomo)

In prossimità del rinomato Cantiere Navale stabiese, a ridosso della strada Panoramica che da Castellammare conduce a Sorrento, sorge (sulla omonima collina) il Santuario della Basilica di Pozzano. Probabilmente ciò che ha dato luogo al toponimo Pozzano, è il celebre pozzo (attualmente conservato nell’ipogèo della Basilica), nel quale fu rinvenuta la sacra tela con l’immagine della Madonna (secondo gli storici, opera risalente ad epoca compresa tra l’XI e il XIII secolo). Continua a leggere

Villa del Pastore

articolo a cura di Vincenzo Cesarano

Il Pastore (particolare)

Il Pastore (particolare)

La villa del Pastore risale a un periodo compreso tra l’VIII secolo a.C. e il 79 d.C., essa prende il nome da una statua marmorea (alta circa sessantacinque centimetri, con una base di sedici), risalente al periodo ellenistico, rinvenuta nel 1967 raffigurante un anziano pastore, vestito di pelli, che trasporta in spalla un capretto mantenuto con la mano destra mentre con la sinistra regge una lepre. I primi scavi, effettuati sul pianoro di Varano, furono intrapresi nel maggio 1754 ad opera di Karl Weber, immediatamente apparvero dei muri e furono recuperati i primi oggetti, in seguito furono interrotti per poi riprendere nel 1775, sotto la guida di Pietro la Vega fino al 1778. Continua a leggere

Il primo pranzo con i miei futuri suoceri

( di Catello Graziuso de’ Marini )

Carissimi, un affettuoso saluto a tutti. Sarà l’età avanzata, ma stasera mi sento nostalgico ed in vena di sentimentalismi. Rinviando ad una prossima lettera il racconto dell’incontro con la buonanima di mia moglie Margherita, non posso tuttavia sottrarmi dal ricordare uno dei più cari momenti che sono scolpiti nella mia memoria e nel mio cuore: il primo pranzo domenicale al quale partecipai nella casa dei miei futuri suoceri subito dopo il fidanzamento ufficiale.

La mia Margherita, che diventerà negli anni Titina mia, era molto emozionata. Ma io, oltre all’emozione, avevo dentro di me un certo timore reverenziale nei confronti del padre, ufficiale dell’Esercito, nonché dello zio materno, ancora scapolo (e morirà tale). Io ritenevo che questi fosse ivi presente al fine di dare man forte ai genitori di Titina nella difficile opera di valutazione della mia persona. Seppi tuttavia dopo poco tempo che il vero motivo della sua ingombrante presenza (egli era un noto docente di lettere) era molto più banale e terreno: ‘a cucina ra mamma ‘e Titina, di straordinario valore.
Orbene, quel mattino mi feci imprestare un abito. Dopo averlo provato diverse volte, mia mamma, salutandomi sull’uscio della porta e pronunciando la frase: “M’arraccumanno, Catié!”, mi sporcò i guanti di grasso di maiale (‘a ‘nzogna) che stava preparando per il ragù della domenica (altrimenti chi s’o firava a papà).
Arrivai finalmente sotto casa di Titina a via IV Novembre, ma mi resi conto che la mia agitazione mi aveva portato ad essere in anticipo di oltre mezz’ora.
In quei frangenti meditavo sulla bontà o meno della scelta di acquistare le paste dal caffè Spagnuolo (fra cui, ricordo, svariate cassatine al caffè) anziché i fiori.
Titina, invero, mi aveva consigliato in tal senso, perché pensava che lo zio – vero banco di prova in seno alla famiglia – potesse obiettare che trattavasi di scelta borghese.
Me faciette ‘e mille culure quando entrai a casa e lo zio, viste le paste, disse in dialetto (sorprendendomi, credendolo io un austero cattedratico): “Guagliò, e che te crire, ca ‘nce murimme ‘e famma?”. Lanciai un’occhiataccia a Titina, che già stava arrossendo, temendo seriamente sul placet al matrimonio. Intervenne tuttavia inaspettatamente in mio ausilio il padre, Umberto, vestitosi per l’occasione in abito elegante, con lutto al braccio (data la recente dipartita del padre), che disse: “E che ‘nce magnaveme aropp”o pranzo, ‘nu piatto ‘e garofane?”.
Sdrammatizzato il momento, e prima del pranzo, iniziò quello che a distanza di anni non esito a definire un vero e proprio esame. Lo zio Vincenzo si piazzò al centro del tavolo del soggiorno, a mo’ di Presidente della commissione, ai suoi lati i genitori di Margherita. Ben presto però rimanemmo solo noi tre uomini nella stanza, perché le donne andarono in cucina nei preparativi del pranzo.
Lo zio Vincenzo era il vero ostacolo. Infatti, mentre il padre Umberto guardava nervosamente verso la cucina, manifestando poco interesse per le mie risposte (ebbi la netta impressione ca se steva murenne ‘e famme), lo zio era morbosamente interessato alle mie eventuali avventure amorose pregresse.
A un tratto, dopo che avevo risposto quasi sempre con monosillabi, cercando e fa a parte r”o bravo guaglione, sentendomi ingiustamente sotto pressione, feci un breve monologo (sempre con toni educati) che costituì la svolta: “Nun saccio che ve site mise ‘ncapa, io songhe n’ommo serio. Tutto chello che aggio fatto appartene ‘o passato, e nun v”o pozzo ricere, se no fosse ‘nu capa sciacqua!”
“Sta bene!”, esclamò il padre Umberto, alzandosi di scatto e dirigendosi verso la cucina, lasciando di stucco lo zio Vincenzo.
Allo stupore dello zio Vincenzo, che lo esortava a proseguire l’esame, il padre disse: “Nun ne putimmo parlà aroppo?”. E aggiunse: “Tanto, Vicié’, a chi vuò fa fesso, tu cca staje p”o magnà!”
In un clima di serenità mangiammo dunque tutti insieme, e mi commuovo pensando a quella nuova famiglia che si stava formando in quelle ore.
L’unico ultimo ostacolo fu una domanda della mamma Concetta: “Catié, che ne pienze ‘e Castellammare?”. In quel momento mi sentii come uno studente al quale hanno chiesto l’argomento su cui è più ferrato. Dissi dunque: “Io stongo int”a sta città a quando so’ nato, e cca voglio rimané. Me chiamme Catiello e nun tengo ‘a capa ‘e ‘mbrello. Viva Castellammare!”. Alzai il calice e misi una seria ipoteca sul mio sposalizio.

Un caro saluto stabiano. Lello Graziuso de’Marini di Varano.

Natale 2009: lettera a Gesù Bambino

Gli anni ’30 a Castellammare
( nei ricordi dello stabiese Gigi Nocera )

Natale 2009: Gigi Nocera scrive a Gesù Bambino

Natale 2009: Gigi Nocera scrive a Gesù Bambino

Caro Gesù bambino, chi ti scrive è un vecchio bambino (o un bambino vecchio, scegli tu) che dalla vita ha avuto tutto, il bello e il brutto; le gioie e i dolori. E della vita ha visto quasi tutto… Gli manca soltanto il finale. Ma oggi vuole dimenticare tutto questo e ritornare un innocente fanciullo e scrivere la letterina dei desideri. In questo Santo giorno i bambini, normalmente, chiedono dei doni, dei giocattoli. Ma il bambino che per un giorno questo vecchio vuole rappresentare non ti chiede questo, ma un dono prezioso e nello stesso tempo pesante come un castigo: il LAVORO! Ma non per se, no!, ma per suo padre, per suo nonno. Devi sapere che questi suoi cari lavorano (o lavoravano? dato i tempi questo non si può affermare con sicurezza) nel glorioso cantiere navale che da circa due secoli è la principale fonte di reddito della maggioranza degli stabiesi. Se questo reddito viene a mancare al suo posto subentrano miseria e disperazione. Ed oggi questa prospettiva sta diventando realtà: il cantiere non ha più lavoro e sta mettendo “a spasso” (come si diceva una volta con un malizioso eufemismo) centinaia di lavoratori, privandoli quindi di quel poco denaro che finora è servito per tirare avanti la famiglia, sottraendola ai richiami brutti dell’illegalità. Difatti, si può rimanere passivi e inermi quando sul desco quotidiano scarseggia il pane? Quando non si possono comprare scarpe e panni caldi? Quale padre, davanti ad un figlio che sta crescendo nel fisico e nella mente, non si ribella a questa che ritiene, ed è, una ingiustizia? Quindi non stupirti, caro Gesù Bambino se aumenta la delinquenza. E non credere neanche a quelli che dicono: “Ma c’è la crisi per tutti!” Non crederci: non è vero. La crisi colpisce principalmente i poveri, i senza voce, coloro che non vengono mai ascoltati: da nessuno e in nessuna sede. L’unica arma che possiedono è la solidarietà fra di loro, l’unirsi affinché la voce di ognuno non sia un flauto, ma con quella degli altri diventi un tuono. Un tuono tanto fragoroso da far sobbalzare dalla comoda sedia chi con occhio annoiato e infastidito vede tutto ciò e non fa nulla. Continua a leggere

Il gioco, i giochi.

Gli anni ’30 a Castellammare
( nei ricordi dello stabiese Gigi Nocera )

Lo spunto per questo “ricordo” me lo ha dato una domanda rivoltami giorni fa dal caro e giovane amico Giuseppe Zingone: “Ma voi ragazzi degli anni ‘30 cosa giocavate, dove e come?” Questa innocua e lecita curiosità mi ha costretto a rovistare nei cassetti della mia memoria ed ecco cosa vi ho trovato:

1° Che molti di quei giochi non si praticano più, perché sono stati soppiantati da altri più sofisticati… in particolare dai giochi elettronici;
2° Che ai miei tempi i maschietti giocavano fra loro, come del resto facevano le femminucce (del resto anche le classi miste negli istituti scolastici non esistevano ancora);
3° Che i nostri giochi si svolgevano in prevalenza in strada o in spiaggia. Per nostra fortuna (bambini di allora) a Castellammare ne esisteva una, bellissima, proprio nel centro cittadino, facilmente raggiungibile da tutti i rioni; ho sottolineato il verbo per richiamare l’attenzione sul fatto che la stupidità e la incuria degli uomini l’ha trasformata in un prato “Ca nun c’azzecca niente cu stu mare”.

'o strummulo

‘o strummulo

Giocare fuori dalle nostre abitazione forse era già, inconsciamente, un primo passo per ottenere la ricercata libertà che in quelle nostre case anguste e sovraffollate, non potevamo di certo avere. Case in cui non potevamo dare libero sfogo alle nostre irrequietezze; lo spazio e la libertà di azione invece serviva proprio per liberarci di quei rimproveri dei nostri genitori: tiene arteteca, addò tiene ll’uocchie tiene pure ‘e mmane! Continua a leggere