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Vascello Capri (anno 1810)

 ( a cura di Antonio Cimmino )

Varo del vascello Capri (autore ignoto).

Varo del vascello Capri (autore ignoto).

Il vascello CAPRI, fu varato nel Regio Cantiere navale di Castellammare, il 21 agosto 1810.
Costituito da uno scafo in legno con carena foderata in rame (per la protezione dall’acqua marina e dai parassiti), la nave aveva tre ponti. I 74 cannoni ad avancarica ed a canna liscia, erano sistemati in batteria: una scoperta sul ponte e due coperte. Possedeva tre alberi a vele quadre (trinchetto, maestro, mezzana) e il bompresso a prua (albero sporgente ed inclinato di circa 30° rispetto alla superficie del mare). Andò in disarmo il 1847 e poco dopo fu venduto a Napoli per essere demolito.
L’immagine a corredo (rappresentante l’operazione di alaggio) dipinta da ignoto nel 1843, è un acquerello che si trova a Napoli nell’ex Comando in Capo del Dipartimento Militare del Basso Tirreno di Via Cesario Console (Comando soppresso con D.L. g.vo 464/1997).
Si nota il nuovo scalo di alaggio e, in secondo piano, i capannoni per l’alloggio delle lance cannoniere (lancioni) inseriti tra due edifici adibiti a magazzino.

La curiosità: l’unità fu costruita sotto il regime di Gioacchino Murat (decennio francese 1806-1816), il 10 maggio 1843, fu tirato a secco nello scalo di alaggio del cantiere di Castellammare utilizzando ben 2.400 uomini. I 1450 operai del cantiere furono aiutati in tale operazione da 320 uomini dell’equipaggio del “Vesuvio”, 242 della fregata “Regina”, 242 del “Partenope” e 146 della “Isabella”. Furono usati 8 argani cosiddetti a “Barbotin” cioè con tamburo ad impronta, costruiti dalla Ditta Lorenzo Zino & Henry di Napoli.

Cenni di architettura navale:
Il vascello da 74 cannoni comparve sullo scenario marittimo verso la fine del ‘700 e rappresentò un compromesso tra la potenza delle artiglierie e la manovrabilità rispetto alle precedenti unità armate con 100 cannoni ma meno evolutivi. Generalmente i cannoni più pesanti (fino a 4 tonnellate) erano sistemati sul ponte principale, sul ponte inferiore in batteria coperta, dai quali sparavano palle da 32 libbre, mentre i più leggeri, in batteria scoperta sul ponte di coperta, sparavano palle da 18 libbre. Il rinculo era assorbito dal movimento delle ruote dell’affusto. Alcuni vascelli, inoltre, avevano due cannoni da 12 libbre sul castello di prora (cannoni detti “in caccia” per colpire le navi in fuga) e 4 da 32 libbre sul cassero a poppa, detti “in ritirata” per bloccare la nave inseguitrice. Questi cannoni erano più lunghi ed avevano una migliore precisione. Le carronate erano cannoni con canna più corta, meno pesante e servita da meno uomini: in battaglia era più facile da caricare (a mitraglia) e da puntare; servivano per l’arrembaggio.
Un’altra caratteristica delle unità in legno era rappresentata dalla carena ramata, altra innovazioni inventata in Gran Bretagna. Precedentemente la protezione contro la corrosione era ottenuta dipingendo, in più mano, la carena con una miscela di zolfo, sego, minio, olio di pesce e catrame e, alla fine, una passata di catrame minerale. Questo conferiva ai velieri il caratteristico colore nero con una fascia bianca o gialla in corrispondenza dei portelloni di murata dei cannoni.

Note:
Le informazioni contenute nella presente scheda sono tratte da: Radogna L., op.cit.; Formicola A. – Romani C., L’industria navale di Ferdinando II di Borbone, Casa Editr. Fausto Fiorentino, Salerno, s.d., pag. 52; Cosentino A., Vascello da 74 cannoni, in Sullacrestadellonda.it. 


Per approfondimenti scrivere a: cimanto57@libero.it

Movimento Operaio: Il primo Socialismo nell’ultimo decennio dell’Ottocento

CAPITOLO SECONDO

IL PRIMO SOCIALISMO NELL’ULTIMO DECENNIO DELL’OTTOCENTO

1. Nicola Scognamiglio, primo consigliere comunale socialista stabiese

Conseguita la licenza liceale, il giovane Langella s’iscrisse all’università, facoltà Belle Lettere, dove avrebbe dovuto laurearsi entro il 1898, ma all’epoca si era già avvicinato al socialismo, dopo essere passato, come abbiamo appena visto, attraverso l’esperienza della gioventù liberale, del Circolo Democratico e di quello repubblicano. Anzi, stando alla scheda stilata su di lui, il 27 giugno 1898, dal siciliano Costantino Taranto, Sottoprefetto del Circondario di Castellammare di Stabia.”…era stato il primo a passare nel campo dei socialisti fondando il gruppo detto Circolo di studi sociali”
Con Catello Langella avevano fatto la scelta del socialismo altri giovani intellettuali come Nicola Scognamiglio, professore di lettere in una scuola tecnica privata fin dal 1892, Luigi Fusco e Vincenzo De Rosa entrambi scrivani e il legale Salvatore Formicola, il più anziano dei cinque, già 44enne nel 1898, originario di Resina, l’odierna Ercolano. Questo gruppo, in assenza di una vera e propria sezione del PSI, aveva cominciato a frequentare la sede della Società dei panettieri e utilizzando per le prime ingenue riunioni segrete una bottega di barbiere di via Sarnelli, sognando di organizzare una classe operaia refrattaria al richiamo rivoluzionario proveniente dal partito di Turati.
Figura minore del movimento operaio stabiese, una meteora spentasi alle prime difficoltà, il professore Nicola Scognamiglio fu eletto per la prima volta consigliere comunale nelle elezioni amministrative del 5 luglio 1896 candidandosi nella lista dell’Associazione Operaia Liberale capitanata da Catello Fusco e dai suoi nipoti Ernesto e Nicola, figli di suo fratello Casimiro già sindaco della città nel 1877. L’amministrazione non ebbe vita lunga sciogliendosi nella primavera dell’anno successivo. Seguirono alcuni mesi con il Regio Commissario Adolfo Ferrari distintosi per la sua totale incapacità amministrativa e bersaglio preferito di Catello Langella, corrispondente dell’Avanti! con lo pseudonimo di Spartaco.
Riconfermato nelle nuove elezioni del 21 novembre 1897, queste si caratterizzarono per la presenza di tre agguerrite liste, due delle quali si riconoscevano nel vice ammiraglio Giuseppe Palumbo (1840 – 1913), già comandante militare del Regio Cantiere dal 1873 al 1874 e deputato del collegio di Castellammare: la prima era capitanata dal cavaliere Paolo Avitabile, ansioso di riconquistare quella vittoria che ormai gli sfuggiva dal 1890 quando finalmente era riuscito ad essere eletto sindaco per la prima volta ed ora fortemente intenzionato a tornare sullo scranno più importante del governo cittadino, come in effetto sarà, potendo contare sull’aperto appoggio del vice ammiraglio; l’altra era diretta dal medico Carlo Salvadore, anch’egli devoto del Palumbo ma stanco di limitare il suo ruolo a quello di consigliere comunale e assessore e deciso a fare il salto di qualità provando anch’egli la scalata a primo cittadino. Il medico sapeva che la sfida lanciata a Paolo Avitabile, compagno di tante battaglie politiche comuni, era difficile ma non impossibile, in ogni caso la lista da lui rappresentata non era per nulla intenzionata a far da comparsa in quella che si delineava come una dura campagna elettorale; la terza, in ordine di tempo e di forza, vedeva alleati antichi nemici per la pelle, Tommaso Sorrentino e Catello Fusco. Presentatosi come lista di minoranza, quest’ibrida coalizione di fuschiani e sorrentiniani sarà definita dal quotidiano, Roma, del 13 novembre 1897, un “connubio tra diavolo e acqua santa”, dove naturalmente il ruolo di Lucifero spettava al vecchio liberale di sinistra, originario di Gragnano, bestia nera dei moderati e ancor più dei reazionari del collegio elettorale di Castellammare per così tante legislature.
Con la sonora sconfitta nelle elezioni politiche generali del 26 maggio 1895 subita dal traballante deputato di Caprile, Tommaso Sorrentino, da parte dell’astro nascente della politica stabiese, Alfonso Fusco, il primo dei quattro figli di Casimiro, tutti prestati con successo alla politica, a pagare il prezzo più alto di questa insolita alleanza era stato, nonostante tutto, Catello Fusco. Non solo questa alleanza spuria gli aveva alienato gran parte delle simpatie precedentemente riscosse negli ambienti moderati, fatto rompere con il resto del clan Fusco, del quale era sempre stato il capo indiscusso, ma aveva per questo perso pure la carica di sindaco essendo stato sospeso per abuso di potere con effetto immediato e denunciato alla Procura del Re per essersi fatto promotore di un Comitato elettorale a sostegno di Sorrentino e alla testa del quale aveva messo come presidente e vice due assessori municipali. Non contento aveva, secondo i suoi accusatori, utilizzato spregiudicatamente le guardie municipali come fattorini del comitato stesso, “Non meriterebbe questo bizzarro fatto – vedi articolo 92 della legge – l’intervento del sottoprefetto locale?”, aveva denunciato Il Mattino proseguendo nella sua martellante campagna a favore di Alfonso Fusco e attaccando continuamente suo zio Catello. Alle autorità giudiziarie erano stati deferiti anche i presidenti dei seggi elettorali di Gragnano, Lettere, Agerola e Pimonte per essersi rifiutati di proclamare l’elezione del vincitore e per presunti brogli elettorali. Saranno poi tutti assolti dalla 5° sezione della Corte d’Appello il 26 luglio 1897. A completare la catastrofica caduta del famoso e rinomato medico chirurgo, con una disfatta senza precedenti, erano seguite le elezioni amministrative del 22 giugno 1895 con la vittoria del suo antico rivale, poi alleato e infine di nuovo avversario, Giovanni Greco alla testa di un Comitato delle Associazioni Riunite.
Era pur vero che quell’amministrazione non era andata molto lontana, travolta dalla guerra tra clan avversi e tra la stessa maggioranza, il consiglio comunale era stato sciolto con regio decreto dopo pochi mesi e affidata al Regio commissario Curci. Nuove elezioni comunali si erano tenute il 5 luglio 1896 e stavolta la vittoria aveva arriso all’Associazione Operaia Liberale di Catello Fusco. Ma anche stavolta, come tante altre volte, cambiare il maestro non aveva portato a modificare la musica e meno di un anno dopo, ancora uno scioglimento e nuovo commissario prefettizio per l’ordinaria amministrazione, fino a queste nuove, ennesime elezioni amministrative. Votarono, come quasi sempre accadeva, meno del 50% degli aventi diritto, appena 1041 votanti su 2262 elettori distribuiti nei cinque seggi cittadini ma sufficienti per dare la vittoria a Paolo Avitabile, il quale conseguì anche un suo piccolo successo personale con 811 preferenze, ben distante dal secondo, il giovane avvocato Catello Gaeta con 708 voti. Completamente cancellato invece il sindaco Salvatori e la sua ambiziosa lista mentre quella del duo Fusco – Sorrentino conquistava gli otto seggi spettanti alla minoranza. In questa c’era anche Nicola Scognamiglio, nuovamente eletto con 483 voti. In verità non sappiamo se al momento di questa seconda candidatura avesse gia fatto la scelta del socialismo. Stando ad un articolo scritto da Langella sull’Avanti! all’indomani di queste elezioni, dovremmo propendere per il no, visto che non lo cita affatto, ma è possibile pure che ciò risponda a motivi di opportunità politica. Di certo proveniva dal circolo repubblicano Aurelio Saffi, lo stesso di Catello Langella e degli altri socialisti poi fuoriusciti per fondare il Circolo di studi sociali di cui si è detto. Così com’è dimostrato il suo passaggio al partito di Filippo Turati in quegli stessi mesi facendo di lui uno dei primissimi socialisti di Castellammare e, di fatto, il primo consigliere comunale socialista non solo di questa città ma della provincia e, forse, dell’intera regione. Nel 1899 a Benevento, sarà eletto consigliere comunale e provinciale, il socialista Luigi Basile, leader indiscusso del movimento operaio e socialista dell’intera provincia, fino ad essere eletto sindaco del capoluogo sannita nel 1905. Nel 1900 si avrà nella vicina Torre Annunziata l’elezione a consigliere comunale dell’ingegner Arturo Giannelli. Questi lo abbiamo già incontrato nel 1897, alla testa di un gruppo di socialisti dissidenti ed espulso dalla sezione ufficiale del PSI ma, evidentemente riammesso in un secondo momento, al punto da diventare il segretario della sezione stessa. Susciterà inizialmente l’ammirazione degli stessi compagni con il suo impegno in consiglio comunale, salvo poi essere di nuovo espulso dal partito il 22 agosto 1901 per “la sua condotta incerta e tentennante, sia come socialista, sia come consigliere comunale”.
Ma tutto questo avverrà dopo, confermando dunque il piccolo primato socialista di Castellammare. Intanto Nicola Scognamiglio,“Quantunque non fosse uomo di lotte, secondo sua natura”, si ritrovò tra gli organizzatori delle proteste popolari del maggio 1898. Arrestato se la cavò con pochi mesi di carcere e cento lire di multa grazie anche, probabilmente, alla spontanea testimonianza del sottodirettore del Regio Cantiere, Attilio Malliani, deponendo durante il processo a suo favore, dichiarando di non aver mai conosciuto uomo più tranquillo, d’idee più moderato, di costumi più buoni, al punto di avergli affidato l’educazione del suo unico figlio. Nonostante la mitezza della pena, scontata nel tremendo reclusorio di Nisida, Nicola Scognamiglio, uscì da questa esperienza scosso nel morale e un po’ malandato di salute. Le sue stesse idee politiche, maturate, probabilmente, negli ultimi tempi, andarono subito in crisi. Sicuramente era molto più tranquillo e comodo essere monarchico, come si professava appena tre anni prima, quando presiedeva un circolo intitolato al defunto re Vittorio Emanuele. Il poco più che trentenne professore di lettere non era un estremista, cercava soltanto di costruire una società più giusta, ma il prezzo da pagare era già stato alto per un uomo mite come lui. Ciononostante dobbiamo considerarlo il primo consigliere comunale socialista di Castellammare, probabilmente uno dei pochi, in quel 1898, che nel Mezzogiorno poteva vantarsi di sedere su quel scranno nonostante la sua etichetta di sovversivo. Del resto bastava poco a quei tempi per essere considerato tale, come per esempio cantare L’inno dei lavoratori in pubblico perché “incita all’odio tra le classi” o leggere l’Avanti! giornale ritenuto ai limiti della legalità. Nuovamente candidato nelle elezioni amministrative del 1° febbraio 1903 non riuscì eletto, grazie, probabilmente, agli imbrogli e alla corruzione sulle quali Alfonso Fusco impostò la sua campagna elettorale, come più avanti vedremo.
Nell’ottobre 1901 istituì la Scuola Tecnica Stabiese, poi trasformata in Scuola Tecnica Pareggiata Giuseppe Bonito, con pochi altri professori di Castellammare, tra cui Michele D’Auria – l’antico studente con il quale Catello Langella aveva inscenato nel 1888 la manifestazione a favore del maestro Tessitore – che poi ne divenne la vera anima e primo direttore. Fondò e diresse il periodico Il Corriere di Stabia, le cui prime notizie risalgono al 1894, quando è citato in una corrispondenza estiva del Mattino come giornale in grado di offrire sempre notizie freschissime e le ultime al 1904 quando è accusato di fare da cassa di risonanza degli interessi politici di Alfonso Fusco. Autore di uno studio critico letterario su Manzoni e di una biografia su Padre Luigi Aiello, maestro e tutore dei sordomuti, lo stesso Scognamiglio si occupò di ..questi infelici cui dedicò con affetto e carità l’opera sua occupandosi del loro insegnamento e dei gravi problemi didattici e pedagogici che si agitano intorno alla loro educazione..,
com’ebbe a dire il consigliere comunale, Eduardo De Lutiis, rievocando brevemente la sua vita in maniera commossa, anche se con enfasi retorica. Scomparso prematuramente, a soli 42 anni, il 23 febbraio 1908, sarà commemorato il successivo 16 marzo, nel primo consiglio comunale convocato all’indomani delle elezioni amministrative del 1° marzo.

2. Il sovversivo Catello Langella

Divenuto, sempre secondo il rapporto della Sottoprefettura, il socialista più influente della città, Catello Langella si trovava in corrispondenza con i principali capi del Partito Socialista del Regno, tra cui lo stesso Filippo Turati (1857 – 1932). Scriveva abitualmente, dall’ottobre 1897, sull’Avanti! di cui era corrispondente ordinario, sotto lo pseudonimo di Spartaco; – su altri giornali non identificati e in ogni caso da noi non trovati scriveva con lo pseudonimo di Masaniello – riceveva e spediva “giornali sovversivi” quali lo stesso organo del PSI ma anche l’Asino, un settimanale satirico illustrato di orientamento socialista, pubblicato a Roma dal novembre del 1892 con un enorme successo di pubblico, la Critica sociale, il quindicinale socialista fondato da Filippo Turati nel 1891 e in seguito, La Propaganda, organo ufficiale dei socialisti napoletani pubblicato dal 1° maggio 1899 e, con alterne fasi, fino all’indomani del primo conflitto mondiale.
Il profilo tracciato dall’oscuro funzionario di pubblica sicurezza all’indomani dei moti di maggio 1898 e ripreso nella relazione scritta per il Casellario Politico Centrale dallo stesso Sottoprefetto, Costantino Taranto, un siciliano che aveva retto la sottoprefettura di Terni prima di venire a Castellammare, ci consente una sua conoscenza ravvicinata: alto un metro e sessanta, di corporatura snella, dai capelli neri e con gli occhi castani,
…egli si dimostrò studioso e non di cattiva moralità (…) è intelligente abbastanza ma malevole; suoi compagni abituali sono gli altri socialisti di qui (…) nonché i socialisti militanti di Napoli, ove egli si reca ogni giorno a studiare. Si comporta bene verso i genitori e verso i fratelli. Non coprì mai cariche politiche od amministrative. E’ socialista e si può dire il più influente a Castellammare(… ). E’ il capo della propaganda socialista che egli fa con attività portentosa in tutte le classi sociali, grazie alla sua cultura che gli permette di creare proseliti. E’ capace di tenere pubbliche conferenze, ma finora in pubblico non ha mai parlato…
Tra le prime iniziative assunte dal neo gruppo del Circolo di studi sociali ci fu quella del 24 febbraio 1898, quando si rese promotore di una conferenza del deputato socialista Dino Rondani (1868 – 1951), formidabile oratore cesenatico ma milanese d’adozione. A Castellammare, per accompagnare il parlamentare del collegio di Cossato, c’erano i napoletani, Vincenzo D’Ignazio e Gino Alfani, quest’ultimo non ancora in rottura con i socialisti napoletani, in particolare con il gruppo che da lì ad un anno avrebbe fondato il nuovo periodico socialista, La Propaganda. E quando nella sala gremita di persone, il delegato di pubblica sicurezza prontamente accorso, ordinò di sciogliere quella assemblea non autorizzata, il rivoluzionario d’origini molisane, con il suo carattere intemperante, non esitò ad opporsi, rivendicando il diritto di partecipare ad una privata riunione. Immediatamente arrestato e giudicato per citazione direttissima il giorno seguente dal pretore stabiese, il suo nono arresto si concluse con una multa. La stessa manifestazione, con Rondani, Langella e Alfani, si sarebbe tenuta in quella giornata a Torre Annunziata, al ritorno da Castellammare, senza creare nessun problema d’ordine pubblico.
Questo episodio trovò eco su un giornale cittadino, Il Corriere del Circondario, che nel suo numero del 27-28 febbraio 1898 così raccontò il fatto:
Proveniente da Napoli col treno dell’una pomeridiana, giunse fra noi giovedì scorso l’Onorevole Rondani, deputato socialista di Cossato, insieme a parecchi suoi amici di Napoli e di Torre Annunziata. L’on. Rondani col suo seguito, dopo di aver fatto colazione nell’osteria di Rosa Nova, si diresse alla sede della Società dei Panettieri. Quivi si trovarono riunite parecchie altre persone, appartenenti all’associazione ed alcuni curiosi. L’On. Rondani era per salutare e ringraziare quella società ed amici, quando i Delegati di P.S. supponendo che si volesse tenere ivi una pubblica riunione senza il prescritto avviso della Legge, ne ordinarono lo scioglimento immediato. A tale ingiunzione gli amici dell’On. Rondani, Gino Alfani e D’Ignazio, si rifiutarono, ritenendosi in diritto di non essere molestati in un domicilio privato, ed un tale Somma Gennaro di Castellammare imitò i suoi amici. Bastò quest’innocuo rifiuto di quei giovani per essere tratti in arresto e deferiti all’Autorità giudiziaria con citazione direttissima.
Ci rincresce dover rilevare che in questa circostanza la P.S. volle far mostra di uno zelo del tutto esagerato, il quale generò effetti diametralmente opposti allo scopo che avrebbe dovuto avere. In fatti con tutta quella teatralità di provvedimenti adottati verso pochi giovani innocui e sconosciuti fra noi, non fece altro che procurare a costoro quella rèclame che non avrebbero potuto giammai conseguire altrimenti, specie in una città come la nostra, del tutto refrattaria al socialismo e ad ogni sentimento che suoni ribellione all’attuale ordine di cose.
Così vedemmo un’insolita animazione per le vie della città, con un affollamento di curiosi, che erano attirati dallo strano spettacolo che offrivano molti agenti di P.S. facenti codazzo a quei giovani dei quali certo nessuno si sarebbe accorto in Castellammare, se la P.S. non avesse attirato su di loro la curiosità del pubblico. E’ vero che coi tempi che corrono ogni precauzione non è mai soverchia; ma questa, in una città tranquilla come la nostra può riuscire balorda, se non ad effetti dannosi, ed è bene ricordare il motto di Talleirant: Sur tout pas trop de zèle!
Il Pretore innanzi al quale si svolse la causa, condannò Alfani e D’Ignazio a 50 lire di multa per ognuno, lasciando pendente il giudizio contro il Somma con l’imputazione di violenza alla forza pubblica e ad altri dieci dei presenti alla riunione, imputati per contravvenzione.

Gino Alfani era già stato a Castellammare il 27 agosto del 1891, invitato dal nucleo repubblicano Aurelio Saffi e da quello Democratico, Mauro Macchi per tenere una conferenza commemorativa in ricordo di Pietro Bersanti, un ventunenne caporale di Lucca fucilato nel 1870 per aver tentato di ammutinare la sua caserma e partecipare ai moti insurrezionali lombardi guidati dai repubblicani, nella primavera di quello stesso anno. Non ci sono documenti in proposito, ma è facile ipotizzare tra gli organizzatori anche il giovane Langella, già entusiasta militante del circolo Democratico e brillante dirigente del suo nucleo giovanile.

3. I moti popolari del 1898 nell’area torrese stabiese

L’estate del 1897 era iniziata con le sfavorevoli notizie sul raccolto del grano in Europa e sulla continua, visibile diminuzione del frumento nei depositi, al di qua e di là dall’oceano, producendo un rialzo considerevole del prezzo del grano e un rincaro del pane e della pasta. Non favorivano la situazione il calo delle importazioni di cereali dagli Stati Uniti a seguito della guerra ispano americana e la stessa crisi economica italiana aggravata dalla costosa e sanguinosa, oltre che inutile, impresa coloniale di Francesco Crispi in Africa, dove il 1° marzo 1896, nella battaglia di Adua, avevano trovato la morte 15mila soldati italiani.
L’esasperazione delle masse popolari esplose dapprima in Puglia, con una serie di tumulti ed estendendosi ben presto in altre regioni, come la Campania, le Marche, l’Emilia, la Lombardia, fino ad incendiare l’Italia intera. Così lo storico inglese, Denis Mack Smith, sintetizza il precipitare della situazione nel nostro Paese:

la ribellione covò sotto le ceneri per tutto il 1897. Nel gennaio 1898 i disordini giunsero ad un punto tale che Roma fu messa per parecchi giorni sotto la legge marziale con truppe appostate in ogni angolo di strada: A Parma la folla si scatenò tagliando i fili del telegrafo e infrangendo i nuovi lampioni a luce elettrica. A Firenze invase palazzo Strozzi ove era alloggiata la regina d’Olanda, e per un giorno fu praticamente padrona dell’intera città. Una circolare governativa del maggio 1898 lamentava che ovunque le autorità locali non facevano che invocare l’intervento dell’esercito e ammoniva che prima o poi ciò sarebbe inevitabilmente sfociato in spargimenti di sangue.

A Napoli il primo focolaio si accese il 2 febbraio e cominciò con un corteo di donne esasperate recatosi a protestare contro il municipio per il prezzo elevato e la pessima qualità del pane, continuando nei giorni successivi con una manifestazione di studenti universitari. Seguì un periodo di relativa calma per poi incendiarsi sul finire d’aprile. A Castellammare invece quei primi mesi trascorsero nella più assoluta tranquillità, apparentemente indifferente a quanto andava accadendo in tante altre parti del Paese. Fu quindi una sorpresa per tutti quando quella domenica di primo maggio, improvvisamente, intorno alle 10 e 30 un nucleo di dimostranti, in maggioranza donne e ragazzi, cominciò a protestare, formando un corteo e andando a manifestare sotto il palazzo municipale contro la decisione della Giunta di rispondere al rincaro del pane, e ai disordini che andavano montando altrove, limitandosi a ripristinare la cucina gratuita. Questa era già stata impiantata nella precedente stagione invernale, con 700 pasti caldi il giorno presso l’ospedale S. Leonardo, all’epoca situato in Piazza Municipio. Le donne chiedevano a gran voce di non essere umiliate con quelle razioni di cibo per i poveri e di preferire invece il lavoro per sé, per i mariti e i figli disoccupati e nell’immediato di calmierare il prezzo del pane. In realtà appena il giorno prima la Giunta aveva stabilito di concorrere, attraverso un sussidio da destinare ai negozianti, alla diminuzione del prezzo del pane di seconda qualità portandolo a 30 centesimi il chilo. Una misura ritenuta insufficiente e da qui la protesta popolare, civile nei toni e nelle forme, di rifiutare quel pasto gratuito. Ma la fame gioca brutti scherzi e così un povero uomo, nonostante il passaparola tra la gente di non accettare quella pubblica carità, aveva in ogni caso preso la razione offerta dalla cucina economica. Il fatto non sfuggì ad alcuni dimostranti e in tre si avvicinarono al malcapitato riducendogli in pezzi la pignatta piena di minestra con un bastone. Quando si vide la minestra riversata sul selciato, l’uomo prese un coccio da terra della pignatta infranta e aggredì i suoi stessi assalitori. L’arrivo delle forze dell’ordine provocò l’arresto di tutti e quattro e contemporaneamente una compagnia di soldati, già allertata da giorni dai diversi tumulti che infiammavano non soltanto l’area torrese stabiese, ma quasi tutti i comuni della provincia napoletana, in particolare la stessa Napoli, San Giovanni a Teduccio, Miano e Secondigliano, come l’Italia intera, sciolse con la forza quell’assembramento non autorizzato.
Ad assistere alla scena, poco lontano, c’erano i probabili sobillatori di quella innocua dimostrazione di popolane, Luigi Fusco e Vincenzo De Rosa. Il delegato Capo della pubblica sicurezza, Vincenzo Ruglioni, li vide sulla soglia dell’ufficio di conciliazione che dava sulla piazza, intuì il loro coinvolgimento, sapendo che la sera prima i sovversivi si erano incontrati nella solita sede della Società dei panettieri, sicuramente per preparare quei tumulti puntualmente verificatosi. Si avvicinò, invitandoli ad allontanarsi, fino a minacciarli d’arresto se non l’avessero fatto e seguendoli con lo sguardo fin quando non li vide scomparire.
Stando ad una versione raccontata dal corrispondente del Mattino, in realtà neanche questo accadde. In questo modo, ironico ma anche di propositiva denuncia, infatti, il cronista, celato sotto lo pseudonimo di Kerecardia, ci racconta la giornata del primo maggio a Castellammare:

se nuovi agenti di forza pubblica ed una compagnia del Regio Esercito non avessero onorato di una loro visita la nostra città, il 1° maggio a Castellammare sarebbe passato inosservato, anzi la giornata di ieri sarebbe stata da meno di altre domeniche. E quanto mai ci sono state dimostrazioni ostili alle istituzioni tra noi? Se togli qualche baccano senza la benché minima conseguenza triste in caso d’elezione politica, la storia di Castellammare non sa registrare altro.
Ieri in Piazza Municipio non c’erano che i soliti piccoli crocchi d’operai nei vestiti di festa e diversi cenciosi con le scodelle sotto il braccio aspettando la razione della cucina gratuita. Ai funzionari di servizio sembrò pericoloso tale assembramento e cominciarono a far sgombrare, a quelli che aspettavano la zuppa non piacque tale disposizione e levando in aria le scodelle, protestarono vivamente; uno scugnizzo gridando “rumpimme ‘o caccaviello”, tirò un sasso, il caccaviello cadde in pezzi, tutti risero, gli scugnizzi fecero capriole e la scena tragico comica si chiuse con i regolamentari tre squilli di tromba e con la marcia in avanti della compagnia di soldati con le baionette in canna. Per un caccaviello!
Oltre questo grave incidente non c’è stato altro. Vedemmo diverse volte per la via l’egregio Sottoprefetto, cav. Taranto con l’infaticabile segretario, avv. Ortona, sorvegliare l’ordine pubblico; vedemmo i delegati di P.S. irrequieti correre di qua e di là prevenire qualsiasi assembramento in più di una persona sola e ci congratulammo con loro per la preveggenza e per i modi cortesissimi usati, ma non possiamo fare a meno di dire che ci fu somma esagerazione. La Giunta municipale ha stabilito una rivendita di pane di grano a 30 centesimi, comprando questo pane dai panettieri a 38 centesimi. E a che porta questo provvedimento? Può durare? Il bilancio comunale, che sebbene non ancora formato pur crediamo esausto, aggravato di oltre 7 o 8 mila lire, i panettieri faranno i loro comodi e fra pochi mesi un’altra voce daziaria si farà sentire pel pareggio. E’ l’impianto del grande panificio che bisogna studiare.

Ci fu o no la manifestazione di ragazzi e popolane, avesse ragione o meno il corrispondente del giornale di Scarfoglio a minimizzare i fatti, al contrario di quanto invece narrato dal corrispondente del Roma, Nicola Ciardiello, nella versione da noi raccontata integrandola con gli atti processuali del tribunale militare, gli incidenti ebbero in ogni modo una coda due giorni dopo, quando ci fu una tempestosa seduta serale del consiglio comunale convocato per discutere alcuni provvedimenti straordinari da prendere “per alleviare le tristissime condizioni pel rincaro del pane”. Niente lasciava presupporre quello che poi sarebbe accaduto. Il consigliere Antonio Vanacore propose di far abolire i dazi sui generi di prima necessità come grano, farina e pasta e questa passò all’unanimità con la nomina di una commissione chiamata ad escogitare nuove tasse a carico delle classi più agiate per controbilanciare gli introiti mancanti dalle proposte abolizioni dei dazii.
L’aula consiliare cominciò a surriscaldarsi quando si passò agli altri punti all’ordine del giorno tra i quali il nuovo prestito, l’appalto dei dazii e l’operato del sindaco su questi stessi argomenti. Ad un certo punto la seduta fu interrotta dalle invettive del consigliere Ugo Cafiero (1866 – 1951) contro il sindaco Paolo Avitabile, il quale non riuscendo a calmarlo gli si avvicinò venendo quasi alle mani. Il pronto intervento del delegato capo, Vincenzo Ruglioni, e di alcuni agenti impedì la rissa con l’arresto immediato del Cafiero, costretto così a trascorrere qualche giorno in cella, con l’accusa di aver arrecato offese all’Autorità nell’esercizio delle sue funzioni.
Con il piccolo nucleo di socialisti c’era un altro giovane stabiese, il 23enne Franco Rodoero (1875 – 1965) il quale, ancora ragazzo, aveva già tentato, nell’ormai lontano 1891, di contribuire con altri ad incitare gli operai a scioperare per il primo maggio, attaccando manifesti fuori dalle fabbriche, ma senza molta fortuna. Non a caso un anonimo cronista del giornale locale, Stabia, probabilmente lo stesso direttore, Federico Ciampitti, poteva scrivere sul suo giornale, nel numero 28 del 3-4 maggio 1890, primo anno di celebrazione della Festa per il Lavoro, che “Il primo maggio fra noi è passato oltremodo tranquillo senza neppure un’ombra di tumulto od apprensione, grazie alla docilità di questi operai, i quali non pensano che a farsi onore con assiduo e diligente lavoro, specie quelli del Regio Cantiere.” Arruolatosi nell’esercito, Rodoero fu inviato a Palermo dove prese contatti con il locale movimento operaio, ma già nel 1896 lasciava l’esercito, ritenendolo incompatibile con le sue idee, e se ne tornò a Castellammare dove riprese il suo posto di “agitatore sociale” al fianco di Catello Langella e degli altri giovani socialisti.
Ancora pochi giorni e il futuro fondatore della Camera del lavoro, attivo propagandista del PSI e non ritenuto estraneo alla dimostrazione di donne e ragazzi di quel primo maggio stabiese, si rese conto, forse per la prima volta nella sua vita, di quanto fosse pericoloso essere socialista in quell’Italia di fine Ottocento. In quelle giornate di primavera, infatti, ripresero in tutto il Paese, dopo un periodo di quiete, vaste e più violenti agitazioni sociali a seguito degli ulteriori aumenti del prezzo del pane, aggravando ancora di più le già precarie condizioni di vita delle masse popolari. Il 7 maggio Milano, con i suoi 82 morti, aveva pagato il tributo più alto alla follia del generale Fiorenzo Bava Beccaris (1831 – 1924, quando questi aveva risposto con i cannoni alla fame degli operai in sciopero. Migliaia di persone, uomini, donne e bambini avevano invaso, pacificamente, le strade cittadine, andando incontro ad un martirio che non avevano cercato. E Umberto, il “Re buono”, a dimostrazione della condivisione della decisione assunta dal militare, organico .. ad un’operazione liberticida, forse non premeditata ma in cui sfociavano e venivano a coagularsi le delusioni subite a causa della mancata realizzazione delle velleità riequilibratici in senso conservatore…, da parte di una consistente fetta di borghesia reazionaria, premiò l’eroico ufficiale con la Gran Croce dell’Ordine Militare di Savoia!
Il 9 maggio sarà Napoli a pagare il prezzo della protesta con due morti, ma già il 2 febbraio la vicina Torre Annunziata era stata sconvolta da violenti tumulti provocando l’arresto di 18 persone. Doveva essere la pacifica manifestazione di un migliaio di persone recatesi intorno alle undici del mattino sotto il municipio, ripetendo il leit motivo rimbombante da settimane nelle piazze d’Italia: pane e lavoro. Il sindaco Ciro Ilardi pensò di tacitare la folla rumoreggiante offrendo dei buoni acquisti per il pane, ma l’offerta si rivelò insufficiente. La situazione precipitò improvvisamente con l’arrivo di un battaglione di fanteria, accorsa per disperdere la folla, ottenendo soltanto il risultato di far degenerare la dimostrazione con scontri e atti di vandalismo contro le vetrate di alcuni negozi. Ne seguì l’occupazione militare del municipio da parte dell’intero 75° battaglione di fanteria e subito dopo gli arresti dei più facinorosi con l’immediato trasferimento, sotto nutrita scorta dei carabinieri, nella vicina Torre del Greco. Per acquietare gli animi furono contemporaneamente distribuiti 750 buoni per l’acquisto di pane. Ma nuovi incidenti si ebbero il 2 maggio quando un lungo corteo di donne e ragazzi cominciò a girare per le vie della città, facendo ingrossare man mano le sue fila. L’obiettivo divenne il molino Scafa dove furono lanciati sassi contro i vetri dell’opificio chiedendo grano per chi aveva fame. Non avendo risposta alcune donne tentarono allora di appiccare fuoco con del petrolio ad un casotto daziario e allo stesso molino. Le fiamme divamparono tra le grida di gioia delle dimostranti, quando sopraggiunsero i militari e caricarono violentemente donne, uomini e ragazzi che si difendevano con le pietre scagliate contro le forze dell’ordine. 41 arresti furono l’esito di quei scontri.
Tumulti si erano avuti anche a Gragnano il 30 aprile, dove ancora una volta furono le donne ad essere protagoniste, quando si riunirono in piazza chiedendo pane a buon prezzo e recandosi in corteo in municipio, dove trovarono il cancello chiuso e i carabinieri ad attenderle. Le donne andarono via, ma tornarono il giorno dopo più agguerrite che mai, in 1500 armate di bastone e alcune anche di pistole. Ad un delegato di pubblica sicurezza che tentò di fermarle furono sparati contro tre colpi di rivoltella, senza fortunatamente colpirlo. Non meno violenta la reazione delle forze dell’ordine, aprendo il fuoco e ferendo una donna alla testa e un vecchio al fianco. In massa presero allora la via di Castellammare per recarsi in Sottoprefettura, ma a metà strada trovarono alcuni funzionari di polizia con un’intera compagnia di soldati. Gli agenti tentarono di convincere le donne a tornare a casa, riuscendoci dopo un’accesa discussione. Ma appena ritornati a Gragnano ripresero i tumulti e ci furono diversi incidenti con alcuni feriti. Forti manifestazioni di protesta con incidenti vari si ebbero il 9 maggio anche a Boscotrecase.
Seguì in tutta Italia un’ondata d’arresti senza precedenti. Furono chiusi i circoli socialisti e repubblicani, le prime Camere del Lavoro e l’intera stampa della sinistra fu messa a tacere. Il 13 maggio, il tenente generale e Regio commissario straordinario di Napoli e provincia, Nestore Malaria, proclamò lo stato d’assedio, prorogando, da un lato, la chiusura serale degli esercizi pubblici nelle città capoluogo di circondario di Castellammare, Pozzuoli e Casoria fino alle 23 ma obbligando, contemporaneamente, gli abitanti delle stesse città a rincasare entro le 24. I primi arresti colpirono soprattutto i dirigenti socialisti del circondario di Castellammare – così come del resto accadde nel resto d’Italia – con l’accusa di aver fomentato i disordini di quei giorni. Tra questi i socialisti di Torre Annunziata, Edoardo Sola, (1871 – 1931), pittore, Luigi Tremonti, d’anni 25, bettoliere, Vincenzo Precenzano, d’anni 25, commesso di bancolotto e il già anziano Francesco Rapacciuolo, d’anni 65, misuratore di frumento, arrestati e incarcerati nel reclusorio di Nisida, mentre riuscì a rendersi latitante Alcibiade Morano. Tutti imputati d’eccitamento alla rivolta perché, come recitava l’atto d’accusa loro rivolto durante il processo, davanti al tribunale militare di guerra, il successivo 8 giugno, sin dal dicembre 1896 facevano parte di un circolo socialista e nell’ultimo mese d’aprile “profittando delle agitazioni pel rincaro del pane eccitavano gli operai di Torre Annunziata alla rivolta”. L’accusa chiese quattro anni per Sola e tre per Precenzano, Tramonti e Rapacciuolo, più un anno di sorveglianza speciale per tutti da parte della pubblica sicurezza. Se la cavarono tutti e quattro con due anni di reclusione per istigazione a delinquere. L’indulto di fine anno restituì loro la libertà nei primi giorni di gennaio 1899.
L’11 luglio del ‘98 cominciò anche il dibattimento per i fatti del 2 maggio contro i 41 imputati per l’incendio del molino Scafa di Torre Annunziata. La sentenza, emessa il giorno dopo, si chiuse con 14 assoluzioni e gli altri condannati con pene variabili tra i due anni di reclusione e un anno di sorveglianza comminati a Giuseppe Abate, Gaetano Penna, Francesco Vitiello e Giuseppe D’Alessio, ai 14 mesi e 200 lire di multa affibbiati a Carmela Natale, fino ai due mesi di reclusione e 100 lire di multa di Lucia Natale, sorella di Carmela, e Laura Domenica. I tumulti di Gragnano del 30 aprile costarono invece una condanna di 12 anni e 6 mesi di reclusione a Vincenzo Donnarumma accusato di tentato omicidio nei confronti di un agente di pubblica sicurezza. Il processo dell’8 e 9 luglio si chiuse con 29 condanne e pene abbastanza miti a favore di Fiorina Sorrentino e Ausilia D’Auria, cavandosela con 45 giorni di carcere ciascuna.
Tra quanti sfuggirono alle leggi marziali ci fu a Napoli, Gino Alfani, lo stesso condannato in contumacia ad otto mesi di detenzione, emigrando clandestinamente in Francia e vivendo, per tutto il periodo che vi rimase, in precarie condizioni economiche, mentre a Castellammare di Stabia, fu Franco Rodoero, ad evitare l’arresto tentando anch’egli di mettersi in salvo oltralpe. Durante la sua fuga, fermatosi in Liguria, troverà rifugio a Genova, presso un convento, dove rimarrà nascosto per circa un anno. Deciderà poi di rimanere in questa terra, anche quando il pericolo di essere arrestato cesserà a seguito dell’amnistia intervenuta. Meno fortunati, Nicola Scognamiglio, Catello Langella, Luigi Fusco, Vincenzo De Rosa e Salvatore Formicola, furono arrestati nella notte tra il 13 e il 14 maggio, dai carabinieri comandati dal maresciallo Antonio Brandi. Considerati i capi del partito socialista di Castellammare, i cinque furono accusati d’essere forti agitatori ed in rapporto con noti socialisti di Napoli, Torre Annunziata e altrove. Tutti imputati d’associazione per delinquere ed eccitamento alla guerra civile, furono portati il 10 giugno davanti alla 2° sezione del tribunale militare di guerra di Napoli, dove Catello Langella negò di aver mai partecipato a dimostrazioni sovversive e di essere sempre stato fedele osservante delle leggi vigenti, provocando la reazione del Presidente che sbottò: “Ma se eravate ossequiente alle leggi perché scrivevate corrispondenze a giornali non ossequenti alle leggi?”.
Non servì molto a Langella, come ai suoi compagni negare di essere socialisti, “Non faccio parte d’alcun circolo sia perché a Castellammare non ve ne sono, sia perché non sono socialista”, gridarono inutilmente i 22enni Vincenzo De Rosa e Luigi Fusco, mentre il trentenne Nicola Scognamiglio si difese ricordando come tre anni prima era stato presidente di un circolo monarchico e come successivamente avesse aderito al circolo repubblicano Aurelio Saffi solo perché anticlericale. Salvatore Formicola, 44 anni, originario di Resina, era considerato tra tutti il più pericoloso: corrispondente de La Montagna, giornale socialista di Napoli, socio della lega anticlericale Giordano Bruno, amico del compianto leader repubblicano Luigi Zuppetta (1810 – 1889) e, come gli altri, proveniente dall’Aurelio Saffi, un circolo repubblicano trasformatosi, di fatto, in una vera e propria fucina di futuri militanti socialisti.
Si rasentò il ridicolo quando il vice brigadiere di pubblica sicurezza, Luigi Giurunda testimoniò accusando gli imputati, escluso il Formicola, d’essere socialisti fin dal 1887, dimenticando che De Rosa (nato nel 1874) e Fusco (nato nel 1877) erano poco più che ventenni, provocando così la divertita, ironica domanda del tenente Madia, difensore d’ufficio degli imputati: “Il teste ha detto che questi fin dall’87 facevano i socialisti. Ma come, a 10, 11 anni erano già agitatori?” Inutilmente l’avvocato Raffaele Palladino, vice pretore di Castellammare tentò di testimoniare a favore di Vincenzo De Rosa che aveva conosciuto quale praticante nel suo studio:
è un giovane colto ed onestissimo, un monarchico come ho potuto rilevare dai suoi vari discorsi. Alla conferenza dell’onorevole Rondani partecipò per pura curiosità. A Castellammare non si può parlare di propaganda sovversiva essendo un ambiente completamente refrattario..
Così come Attilio Malliani, sottodirettore del Regio Cantiere, depose a favore di Nicola Scognamiglio.
Per Langella testimoniò l’ingegnere e consigliere comunale, Antonio Vanacore, il quale per dimostrare la fedeltà alla monarchia dell’imputato, ricordò come, appena un anno prima, nell’agosto del 1897, avesse preso parte alle dimostrazioni organizzate in occasione del duello tra il conte di Torino, giovane rampollo figlio del duca Amedeo e il principe Enrico d’Orlèans, non mancando di inviargli un telegramma di felicitazioni quando si diffuse la notizia della vittoria dell’italiano sul francese che aveva osato offendere l’onore dell’esercito italiano. Sordo a tutte le testimonianze, il pubblico ministero, Gaminara, nella sua requisitoria finale chiese sei anni di reclusione per Langella e Formicola e quattro anni per gli altri tre imputati più la sorveglianza speciale per ognuno. Il tribunale escludendo l’eccitamento alla guerra civile e ritenendo il reato d’associazione condannò Catello Langella ad un anno di carcere e 300 lire di multa, mentre, Salvatore Formicola, Luigi Fusco, Vincenzo De Rosa e Nicola Scognamiglio ebbero sei mesi, più, rispettivamente, 300, 200 e solo 100 lire di multa gli ultimi due imputati. Pena che scontarono, come gli altri, nel carcere di Nisida. Il numero di matricola da galeotto di Langella era il 5983, come puntigliosamente ricorda Raffaele Cinelli, nel suo Profilo di Catello Langella, pubblicato nel contestato volume antologico, con strascichi giudiziari, di Michele Palumbo, Stabiae e Castellammare di Stabia edito nel 1972 dall’Aldo Fiory Editori.

4. La sezione socialista stabiese del PSI nel 1900

L’indulto firmato dal re il 29 dicembre 1898, a seguito della forte campagna d’opinione mobilitata da tutte le forze progressiste e liberali del paese, scosse dalla pesantezza delle pene, sproporzionate rispetto ai fatti commessi in primavera, consentì di uscire dal carcere quanti avevano ricevuto una condanna inferiore ai due anni. Tra i beneficiari ci fu Catello Langella, liberato subito dopo capodanno. Tornato a Castellammare, riprese il suo impegno di sempre. Ma non subito, o in ogni caso non apertamente. Sottoposti ad un anno di sorveglianza speciale da parte della pubblica sicurezza i cinque socialisti stabiesi ritennero probabilmente opportuno non esporsi troppo. E così non si ha notizia di nessuna attività politica per tutto il 1899, nonostante la tempesta abbattutasi quell’anno sui cantieri navali con la proposta in parlamento del marchese Achille Afan de Rivera (1842 – 1904) di privatizzare l’Arsenale di Napoli e il Regio Cantiere di Castellammare. Un obiettivo che il deputato, ex sottosegretario di stato alla guerra ed ex ministro dei lavori pubblici, perseguiva fin dal 1896, quando a Napoli si tese a costituire un consorzio navale con la partecipazione delle maggiori industrie metallurgiche locali come la Pattison, la Gruppy, la De Luca e l’Armstrong. Scopo del consorzio doveva essere quello di rilevare l’Arsenale e il cantiere navale. Direttore amministrativo di questa nascente società doveva essere lo stesso Afan de Rivera, dopo aver lasciato la Camera dei deputati nella quale risiedeva ormai permanentemente da diverse legislature. Fallito lo scopo, ci riprovò nel 1899 presentando un ordine del giorno alla Giunta di Bilancio con il quale s’invitava il Governo a far sì che le nuove costruzioni fossero affidate all’industria privata, lasciando allo stato soltanto le riparazioni, gli armamenti e tutte quelle nuove costruzioni che rivestono il carattere di segretezza. In base a ciò il Governo potrà sopprimere l’Arsenale di Napoli, agevolandone più che sia possibile la cessione all’industria privata e il cantiere di Castellammare con tutti i locali annessi, tosto che si saranno compiuti i lavori in corso, tenendo conto delle condizioni economiche delle due città e i diritti acquisiti dagli operai.

Ne seguirono proteste da parte dei due consigli comunali maggiormente interessati e di quello provinciale, con petizioni e ordini del giorno, interrogazioni dei 17 parlamentari eletti a Napoli e in provincia, arrivando a minacciare le dimissioni dalla Camera se il ministro non retrocedeva dalla proposta di soppressione dei due opifici. Si mossero i sindaci, le diverse associazioni e i rappresentanti dei diversi partiti e tutti insieme formarono una commissione tesa a condizionare l’operato del governo. Naturalmente non mancarono le assemblee operaie dei due stabilimenti associatosi nella lotta per fronteggiare lo stesso pericolo e lo stesso nemico. E ci furono comizi pubblici, a Napoli come a Castellammare con suppliche, petizioni e deliberazioni.
Approssimandosi le elezioni del consiglio provinciale, incurante del terremoto provocato, Afan de Rivera non esitò a candidarsi scegliendo come collegio proprio quello di Castellammare, provocando le ire dell’avvocato e consigliere comunale, Francesco Montefredini. Questi, in una pubblica assemblea non esitò ad accusarlo di scorrettezza, ricordando come l’ex ministro mantenesse rapporti impropri con Michelangelo Cattori, un ex capitano di marina che aveva da poco rilevato l’antica fabbrica di costruzioni metalliche fortemente voluta da Alfredo Cottrau (1839 – 1898) ma ormai in liquidazione, attraverso la partecipazione di suoi congiunti nella società da poco costituita.
Ancora una volta il disegno di Achille Afan de Rivera fu sconfitto in parlamento e dal Governo, costringendolo a ritirare il suo emendamento, prendendo atto delle vibrate proteste sollevate dalle forze politiche e sociali del napoletano. Non per questo le paure erano finite ma per il momento, e ancora una volta, il Regio Cantiere e l’Arsenale potevano fregiarsi del titolo di proprietà dello stato. La debacle del povero marchese dalle antiche origini spagnole si completò con l’inevitabile sconfitta nelle elezioni provinciali del 2 luglio da parte del furbo Alfonso Fusco per 925 voti contro 679, dopo un’indescrivibile, acerrima lotta.
Assenti per tutto il 1899, i socialisti di Castellammare ricominciarono a farsi vivi con l’inizio del nuovo secolo, tentando di riorganizzare le proprie fila in prossimità delle elezioni politiche del 3 giugno per il rinnovo della Camera. Mentre a Torre Annunziata la sezione del PSI candidava, contro l’uscente Vincenzo De Prisco, il socialista Giovanni Bergamasco (1863 – 1943), un protagonista del movimento operaio napoletano fin dal 1885, esule russo e ricco finanziatore della stampa socialista, a Castellammare si costituiva un Comitato dei partiti popolari e proponeva il repubblicano Rodolfo Rispoli in sfida ad Alfonso Fusco. Era la prima volta che le forze di sinistra e quelle democratico – liberali si cimentavano in una comune battaglia per le elezioni politiche perché da sempre il parlamento era riserva naturale di candidati istituzionali, ai quali si contrapponevano oppositori dello stesso campo liberale, ma schierati su posizioni di sinistra, quale in passato era stato il deputato, nativo di Gragnano, Tommaso Sorrentino.
La battaglia intrapresa da Rodolfo Rispoli contro l’agguerrito Alfonso Fusco, da tempo eletto “Il re di Castellammare”, come intitolò il Pungolo Parlamentare, nel novembre di quell’anno, in un feroce articolo teso a dimostrare il passato poco cristallino del neo deputato, era palesemente impari. 1909 voti contro 451 stavano lì a dimostrare quanto lungo e difficile sarebbe stato il cammino delle forze Progressiste e quanto arduo sfondare in quell’elettorato moderato da sempre abituato a votare per i candidati istituzionali, non importava il nome, non importava la provenienza, purché parlassero in nome del Governo e del Re. I socialisti di Castellammare accusarono invece Alfonso Fusco di aver vinto con i mezzi di sempre e cioè “con denaro, con pranzi, con cene, con vino e sigari a profusione..”, oltre naturalmente al sostegno incondizionato della camorra locale e della “sbirraglia”
Le forze coalizzate, raccolte intorno al Comitato dei partiti popolari, non si persero d’animo, proponendosi la rivincita con le successive elezioni amministrative del 29 luglio. I socialisti cominciarono con l’organizzarsi costituendo quello stesso mese, per la prima volta a Castellammare, una sezione del PSI e invitando, approssimandosi la scadenza elettorale, Ettore Ciccotti (1863 – 1939), il famoso deputato di Vicaria, a tenere un comizio che vide una grande partecipazione popolare, mentre i repubblicani invitarono il deputato siciliano Napoleone Colaianni (1847 – 1921). Naturalmente tutto questo non poteva essere sufficiente e i quattro candidati socialisti, gli avvocati Raffaele Gaeta e Alfonso De Martino, il commerciante Agnello Amalfi e l’operaio disegnatore Errico D’Angelo– questi ultimi due erano i ragazzi che nel 1888, insieme a Langella e D’Auria, si erano definiti liberali e avevano inscenato la manifestazione a favore del maestro Giuseppe Tessitore – superarono di poco i voti raccolti nelle elezioni politiche da Rodolfo Rispoli.
Le due sconfitte consecutive non fecero bene alla salute della nascente sezione socialista, andando subito in crisi e sciogliendosi dopo appena qualche mese di vita. Ma non per questo si arresero. Con caparbietà ripresero il lavoro di ricostruzione e lentamente riorganizzarono una nuova e più forte sezione del partito socialista. Risorta pienamente nel gennaio 1901, contava inizialmente 24 iscritti, ma grazie all’incredibile capacità di proselitismo di quel primo, piccolo, originario nucleo di sovversivi, arrivarono a superarne rapidamente i 50. In alleanza con i repubblicani riuscirono anche a fondare un segretariato del popolo e ad iniziare scuole serali per gli operai, ottenendo un certo successo, così come trovarono ampio consenso, non solo nel proprio elettorato, le conferenze domenicali cui erano invitati i maggiori leader socialisti come Dino Rondani, Arturo Labriola (1873 – 1959) e Arnaldo Lucci (1871 – 1945).
L’occasione per misurarsi con una nuova elezione politica arrivò prima del previsto: il 14 maggio di quel 1901, la Giunta delle elezioni annullò la vittoria ottenuta da Fusco, a seguito della denuncia fatta pervenire in parlamento dall’avvocato Francesco Montefredini, per il malcelato imbroglio di finta cessione della gestione del suo gasometro di Torre Annunziata ad un suo stesso dipendente per apparire eleggibile e candidarsi così tranquillamente come deputato, superando in questo modo l’ostacolo dell’incompatibilità per quanti avevano contratti con lo Stato. Tutto era cominciato il 28 ottobre 1895, quando Fusco stipulò un primo falso contratto di fitto del suo gasometro con Michele Paolillo. Ma questi, non molto tempo dopo, si ammalò gravemente, preoccupando Alfonso Fusco: in caso di morte sarebbe venuto meno il contratto di fitto ed egli ritornato proprietario e gestore sarebbe inevitabilmente decaduto da deputato per la regola dell’incompatibilità. Bisognava correre ai ripari, stipulando un secondo contratto fra lo stesso Fusco, il Paolillo e un altro suo dipendente, Pietro Escoffier – morto suicida a 59 anni nel 1916 non sopportando il suo trasferimento in un altro ufficio dello stesso gasometro – pronto a sostituire il collega come testa di legno in caso di dipartita. Ma tutte queste manovre furono lette dal Paolillo come un modo poco elegante di estrometterlo e così cominciò a protestare, a far capire di non essere disponibile a farsi da parte, a tacere. Allora l’imprenditore deputato gli scrisse un biglietto in cui lo rassicurava sul sostanzioso stipendio che avrebbe continuato a ricevere finché sarebbe vissuto.
Pietro Paolillo, morirà poco tempo dopo, nel maggio 1896, ma lascerà una cospicua documentazione dalla quale si evincono tutti gli imbrogli di Alfonso Fusco, quella stessa finita adesso nelle mani della Giunta delle elezioni, compreso quel biglietto sgrammaticato in cui rassicurava il suo dipendente – complice, provocando un incredibile terremoto politico. Il settimanale repubblicano, 1799, con una serie d’articoli fra novembre e dicembre del 1900 intitolati Il Casale di Castellammare, dal nome del deputato napoletano Alberto Casale assurto a simbolo del malaffare politico meridionale, rese pubbliche quelle carte provocando uno scandalo, dilagato in breve tempo su tutti i giornali nazionali. Le nuove elezioni parziali si tennero il 23 giugno 1901 con la partecipazione di ben quattro candidati: Alfonso Fusco, nonostante la sua ineleggibilità, Francesco Montefredini, Rodolfo Rispoli e Saverio Tutino. L’impegno del Comitato dei partiti popolari fu alto, ma quello socialista si rivelò il più serrato al punto che in molti cominciarono a pensare di essere di fronte ad una candidatura socialista. In tale modo lo presentò, per esempio, Il Mattino nei suoi resoconti elettorali.
La certezza della ineleggibilità di Fusco, l’inesperienza di Montefredini alla sua prima candidatura politica, i dubbi amletici del professore Tutino, già scottato da brucianti sconfitte, cui si contrapponevano la ormai rodata straordinaria capacità di mobilitazione del Comitato pro Rispoli e la stessa simpatia suscitata dal candidato repubblicano, preoccuparono non poco i benpensanti e le stesse autorità politiche e municipali, al punto da cominciare a pensare alla necessità di un nuovo candidato istituzionale in grado di competere e vincere contro quel sovversivo la cui vittoria diventava sempre meno aleatoria. Cosicché a sbrogliare la matassa, in sostituzione dell’esitante Tutino fu mandato il vice ammiraglio Giuseppe Palumbo, già deputato del collegio e in grado quindi di offrire le massime garanzie di vittoria. E, infatti, il 23 giugno le urne vanificarono tutto l’attivismo socialista, preferendo l’elettorato confermare la fiducia al concittadino impossibilitato in ogni caso a rappresentarli, mandando in ballottaggio il fedifrago Alfonso Fusco, premiato con 977 preferenze e il vice ammiraglio che si difese con 622 voti. Il repubblicano non andò oltre i voti del suo elettorato con 489 preferenze, poco più di quanti ne ebbe Francesco Montefredini, fermo a 484.
Il ballottaggio, per le complicazioni dettate dalla presenza di Fusco, ritenuto da alcuni presidenti di seggio non eleggibile, fu rinviato, rispetto alla normale pausa elettorale di una settimana dettata dal doppio turno, lasciando al Parlamento la decisione di sciogliere un nodo allo stato inestricabile. E la Giunta delle elezioni, dimostrando quando potenti erano le amicizie altolocate dell’ineffabile imprenditore di Castellammare, decise in maniera favorevole a Fusco riconoscendogli la legittimità di partecipare al ballottaggio. Questo si tenne il 28 luglio. A favore di Giuseppe Palumbo scese in campo Il Mattino con un lungo articolo in prima pagina in cui dava conto delle diverse posizioni da parte del Grandi Elettori del collegio, ma non per questo la lotta fu meno aspra e meno violenta con l’utilizzo, come sempre, d’ogni mezzo, legale e non. Quegli stessi mezzi utilizzati contro i candidati di sinistra e inutilmente denunciati sulla stampa e alle autorità da socialisti e repubblicani. Alla fine vinse il vice ammiraglio per 1423 voti contro 1156 e inutilmente Fusco e il suo clan gridarono allo scandalo, all’imbroglio, alla violenza. Chi avrebbe dovuto tutelarli erano quegli stessi che li avevano sempre coperti, ora semplicemente al servizio di uno più potente di loro. Ma, incredibile a dirsi, anche il vice ammiraglio non andò lontano, dichiarato a sua volta ineleggibile dalla Giunta delle elezioni perché la quota degli impiegati statali rappresentabile in parlamento era completa. Nuove elezioni parziali, nuovi candidati per una pantomima senza fine. Ancora una volta Alfonso Fusco contro Rodolfo Rispoli più un terzo incomodo senza speranze, l’ineffabile professor Saverio Tutino, finalmente convinto a partecipare – per l’ennesima volta – ad una gara per lui senza alcuna possibilità di vittoria. Il vice ammiraglio, in un soprassalto di coerenza, consapevole della sua ineleggibilità rinunciò a ripresentare la propria candidatura.
Ancora una volta gli elettori furono dunque chiamati alle urne per ridare un seggio alla Camera al collegio d Castellammare: annullate quelle del 1900 per corruzione da parte di Fusco e quelle del 1901 per incompatibilità del vice ammiraglio Palumbo, si ritornò a votare il 15 giugno 1902. Rispoli nutriva nuova fiducia, come il suo partito che non a caso aveva scritto sul suo settimanale fin dal 9 giugno 1900 ..Quel risultato ci dà il diritto di affermare che il collegio di Castellammare prima o poi finirà con l’essere conquistato da repubblicani.
La lotta fu senza esclusione di colpi, ma stavolta, incredibilmente, corruzione e violenza non furono sufficienti e la vittoria arrise inaspettatamente al repubblicano sorprendendo non poco lo stesso candidato. 1289 voti seppellirono “Il re di Castellammare”, cui non furono sufficienti i 992 consensi ricevuti dai suoi affezionati, mentre il povero professore mandato allo sbaraglio ne uscì con un magro bottino di 51 miseri voti e se ne andò bestemmiando contro quanti lo avevano convinto ad accettare quell’inutile sfida. Ma per quanto inaspettata, un segnale d’inversione di tendenza si era già avuto pochi giorni prima con l’elezione per il rinnovo del consiglio provinciale dove il Comitato dei partiti popolari aveva candidato per Castellammare il democratico liberale, Antonio Vanacore, portandolo per la prima volta alla vittoria contro il temibile ammiraglio napoletano, Raffaele Corsi (1838 – 1906), ex deputato e sottosegretario di Stato alla Marina. Anni dopo questi successi saranno derisi e disprezzati dai socialisti, non riconoscendoli come propri ma solo il frutto d’accordi innaturali e compromissori, come meglio vedremo in seguito.
Guidata da uomini come Pietro Carrese, Raffaele Gaeta, Andrea Luise, Luigi Fusco, Vincenzo De Rosa, Vincenzo Varone e Alfonso De Martino – figlio del notaio Gaspare, a sua volta consigliere e assessore comunale già al tempo del Plebiscito del 21 ottobre 1860 e per molte successive consiliature – tutti protagonisti, con Catello Langella, degli eventi che interessarono le forze progressiste e il movimento operaio stabiese tra gli ultimi anni dell’Ottocento e il primo decennio del Novecento, la sezione socialista vivrà diverse crisi di militanza, alternando a momenti di crescita, umilianti fasi critiche e di rottura fra i gruppi dirigenti, fino a conoscere periodi di totale chiusura. Riprenderà definitivo vigore quando emergerà una nuova giovane generazione, sul finire del 1912, intorno alla redazione de La Voce, quindicinale di Castellammare pubblicato nel cuore del suo Centro Antico, in Via Nuova 10 e organo del Circolo Rivoluzionario Intransigente Carlo Marx. Un gruppo di ragazzi tra i quali emergeranno i fratelli Gaeta, Oscar, Guido e successivamente Nino, figli di Raffaele; i fratelli Cecchi, Antonio e Pasquale, figli del direttore didattico, Basilio; Oreste Lizzadri, Catello Marano, Antonio Esposito e Ignazio Esposito, corrispondente dell’Avanti fin dal 1909, proprietario e direttore della Voce, il cui primo numero uscirà il 13 ottobre 1912. Sarà questo il nucleo duro nell’area torrese stabiese della sinistra socialista rivoluzionaria di Amedeo Bordiga (1889 – 1970) cui si unirà, non senza qualche contraddizione, il già maturo segretario della Camera del Lavoro di Torre Annunziata, Gino Alfani.
Verso la fine di febbraio del 1901, il già trentenne Catello Langella, su pressione della famiglia, intenzionata a toglierlo “dalle tentazioni e dalle insidie paesane”, si era intanto trasferito a Roma, alloggiando in un convento, grazie probabilmente all’intervento del fratello sacerdote, per completare l’ultimo anno di studi, interrotto dalla sua intensa attività di militante socialista e in conseguenza del carcere subito. Nella capitale egli fu accompagnato dalla fama di pericoloso sovversivo e sottoposto quindi a sorveglianza da parte della pubblica sicurezza, su segnalazione della Sottoprefettura di Castellammare.
Durante il soggiorno nella capitale egli è pedinato da un poliziotto, il quale non si rende conto come un individuo sovversivo possa essere ospite di un convento…s’si accorge di essere pedinato e una sera si avvicina al poliziotto, cui non pare vero di ascoltare dalla viva voce di un indiziato un pensiero traboccante d’amore per l’Italia. Le parole di Catello Langella, come sempre, erano ispirate al bene supremo della Patria…Ebbene il poliziotto da quella sera, anziché pedinare da lontano, aspettava il Maestro all’angolo della strada per accompagnarlo al convento, a volte non senza essersi fermato con lui a sorbire un caffé…
ricorda ancora, con una certa enfasi, Raffaele Cinelli, che ebbe la ventura di raccogliere le sue confidenze. Stando invece ai rapporti di polizia, Langella, accortosi di essere sorvegliato, si presentò alla questura di Roma rilasciando una dichiarazione scritta in cui si dichiarava estraneo alla politica.
Rientrato a Castellammare di Stabia nel 1903, riprese immediatamente la sua frenetica attività di propagandista, distribuendo opuscoli socialisti, riprendendo i contatti con i suoi antichi compagni di fede, a corrispondere con i diversi leaders del PSI nazionale e a tenere conferenze, come dimostra una nota apparsa sul n° 480 del 24 settembre 1903 de La Propaganda:

l’altra sera nel locale della sezione socialista il professore, compagno Catello Langella, tenne una splendida conferenza sul significato della festa del 20 settembre. Si fece ottima propaganda socialista e anticlericale.

Non mancò, naturalmente, di cercarsi un lavoro, senza molta fortuna, partecipando a diversi concorsi come insegnante. Tracce di questi tentativi rimangono in una sua richiesta fatta al sindaco, nel luglio 1907, di rilasciargli un certificato di moralità e buona condotta da allegare ad una sua domanda di partecipazione ad un concorso. La Giunta comunale, nella seduta del 16 luglio, non ebbe difficoltà a riconoscergli quanto richiesto. Ma quando pochi mesi dopo, anche sotto la spinta del suo infaticabile, quotidiano lavoro di propagandista, si costituì un’Unione di miglioramento fra gli edili della città, si rafforzò quella dei vetturini, si crearono le premesse per la costituzione di altre, Catello Langella dimenticò tutto e tentò il grande salto di qualità provando a fondare la Camera del Lavoro, così come già da diversi anni, dal marzo 1901, esisteva e si era affermata con le lotte dei mugnai e pastai, nella vicina Torre Annunziata.

5. Gli scioperi degli anni ‘80

Nella Città delle Acque, dopo le numerose manifestazioni di protesta degli anni ’60, seguiti al ridimensionamento degli organici nel Regio Cantiere e la definitiva sconfitta degli anarchici, di scioperi non se n’erano visti molti. Qualcuno ricordava quelli del 1881 quando per circa due settimane, fra il 13 e il 27 giugno, un numero imprecisato di lavoranti panettieri chiesero al sindaco, il medico Nicola Scherillo di intercedere a loro favore sulla richiesta d’aumenti salariali e contro le 16 ore di lavoro cui erano obbligati. Ma per il sindaco queste richieste erano ingiustificate e alla minaccia di sciopero, il primo cittadino rispose chiedendo l’intervento del Sottoprefetto Gabardi, per mediare tra le parti ed evitare eventuali problemi d’ordine pubblico. Nell’agosto di quello stesso anno, a rivendicare aumenti salariali furono poi 80 pastai, ma quando gli industriali minacciarono di far lavorare al loro posto operai d’altri comuni, tornarono tutti al lavoro accontentandosi del solito trattamento. Cinque anni dopo, nel 1886, 50 panettieri protestarono per un’intera giornata rivendicando aumenti salariali, ottenendoli senza grandi sforzi. Ancora nel 1889, quando l’otto novembre il sindaco Giovanni Greco scrisse una “lettera urgentissima” al Sottoprefetto dal cognome impossibile, il conte Thunn Hohenstein – arrivato a Castellammare dal Circondario di Susa (Torino) pochi mesi prima, il 21 marzo – per avvertirlo che i negozianti di panetteria di qui, in seguito ad intesa, avevano tutti aumentato il prezzo del pane da 35,5 a 40 centesimi il chilogrammo senza che a tale misura corrisponda un aumento del prezzo del mercato.

Per contrastarli il sindaco pensò di far adottare dalla Giunta Municipale un calmiere teso a far rimettere le cose a posto col far vendere pane fatto venire dai comuni vicini. In questo modo, trascorsa una settimana, avrebbe convocato i panettieri per venire a quella determinazione nella quale poster essere concilianti con i giusti interessi degli esercenti e del pubblico colle esigenze del mercato. Bisognerà attendere il 22 febbraio 1891 per registrare un nuovo sciopero e questo interessò 22 macellai. Cinque giorni di protesta per ottenere la modifica della tariffa daziaria comunale, ma ne valse la pena perché l’esito fu favorevole agli scioperanti riuscendo ad ottenere l’acquiescenza alla tariffa daziaria. Non vi furono violenze o minacce, come scrisse il Sottoprefetto al suo diretto superiore il 1° luglio 1892 come risposta a notizie richieste il 9 giugno ai fini della raccolta statistica sugli scioperi avvenuti durante il 1891 e grazie alla quale sappiamo come nella provincia di Napoli, durante quell’anno, erano avvenuti appena cinque scioperi, uno dei quali riguardava appunto i macellai di Castellammare, unica vertenza dell’intero circondario. Nel frattempo il Sottoprefetto era di nuovo cambiato: spedito Thunn a Savona, nella città delle acque, il 24 aprile 1891, avevano mandato da Lugo (Savona) il conte Giovanni Buraggi, cognome decisamente più orecchiabile anche per un popolo che aveva conosciuto, seppure per poco tempo, la dominazione austriaca.
E’ incredibile il numero dei Sottoprefetti che hanno retto quest’incarico nel Circondario di Castellammare dal 1861 al 1926, quando quest’istituto fu soppresso in ottobre con regio decreto. Difficile stare dietro a tutti i nomi succedutosi in questi 65 anni, ne abbiamo contati almeno 28 ma forse sono stati di più, perché molti rimasero solo pochi mesi, per incompatibilità ambientale, rancori suscitati, inimicizie politiche, per carriera e mille altri motivi. Quelli che rimasero più di due anni si contano sulle dita delle mani, tra questi Alessandro Righetti, tra tutti il più longevo, Vittorio Gabardi Brocchi, Francesco Gioeni D’Angiò, Giuseppe Masi, Vittorio Peri, Enrico Pennella, Francesco Farina e Giovanni Niutta. Molti, almeno una quindicina, a dimostrazione che portava bene amministrare un circondario importante e delicato come quello di Castellammare, divennero poi Prefetti, alcuni anche di rilievo.
Certo questo territorio non era di facile governabilità qui …la malvivenza ha profonde radici e storia tenebrosa”, infestata com’era “da temibili e vecchi pregiudicati che infestano questo capoluogo, com’ebbe a denunciare in un suo rapporto del 16 gennaio 1889 il Sottoprefetto Carlo Zecchini al Prefetto. Non a caso qui si registrava, dopo il capoluogo regionale, il più alto numero di pregiudicati della provincia napoletana, compresi i minori d’anni diciotto. Ciononostante Castellammare non doveva essere una città particolarmente violenta, almeno non più di tante altre. Erano particolarmente aggressivi i cocchieri da nolo, ma questa era una caratteristica comune dell’intera categoria, perfino nella più pacifica e tranquilla Sorrento c’era un lamentio continuo su questi rissosi tassisti dell’Ottocento, da tutti ritenuti chiassosi, arroganti, prepotenti, sempre pronti alla lite e facili di coltello. Questi giravano regolarmente, armati in parte per difendersi dai malintenzionati ma anche e soprattutto perché era questo il modo spiccio per risolvere più concretamente le questioni d’aspra e feroce concorrenza nell’ambito della stessa categoria per l’accaparramento del cliente, specialmente il villeggiante dall’aspetto danaroso atteso nel piazzale della stazione ferroviaria e davanti ai Caffè più rinomati. La caccia al passeggero e in particolare al forestiero era tale da sfociare spesso in violenti risse e non di rado concluse con ferimenti derivanti da armi da taglio, se non da fuoco, tra cocchieri antagonisti. La situazione divenne, ad un certo punto, talmente grave da costringere il Sottoprefetto, nel giugno del 1890, a fare un blitz con un’improvvisa perquisizione dei cocchieri e delle loro vetture: furono tante e tali le armi proibite trovate da stupire gli stessi poliziotti. Seguì l’arresto e la condanna di molti di loro.
Questi primi anni novanta, anche se non videro scioperi operai delle fabbriche industriali, i tempi non erano ancora maturi nel pur industrializzato napoletano, si mostrarono in verità assai duri per i ceti popolari, con una disoccupazione elevata nell’area torrese stabiese, come dimostra una corrispondenza tra il Sottoprefetto di Castellammare e il Prefetto di Napoli nella primavera del 1892. Scriveva, infatti, il 26 aprile di quell’anno il conte Giovanni Buraggi, in un suo rapporto al Prefetto, che erano almeno 1600 i disoccupati, in gran parte facchini e garzoni pastai di Castellammare, Torre Annunziata e Gragnano. Una situazione in alcuni casi drammatica, al punto da costringere le autorità a mettere in piedi una cucina economica per venire incontro alle immediate esigenze delle famiglie più bisognose. Il funzionario di governo nella sua relazione tenne a precisare come quella situazione, non nuova nell’area, con il venire della bella stagione andava di solito migliorando, portando i disoccupati intorno alle mille unità. Molto più tragica risultava in verità la situazione del Circondario di Casoria dove i disoccupati erano 3.384, una cifra enorme se si rapporta ai mille contati nella capitale partenopea. In quella situazione, chi poteva cercava fortuna verso Terni, La Spezia e Roma, ricca d’industrie metallurgiche e con un settore delle costruzioni capace di assorbire buone aliquote di disoccupati. Ma ben presto il Ministero dell’interno fu costretto a diramare continue circolari agli organi periferici di governo per fermare un esodo che superava ampiamente la capacità d’assorbimento di manodopera di queste aree. Invece di rassegnarsi al destino avverso ed emigrare in cerca di fortuna, un numeroso gruppo di facchini senza lavoro di Torre Annunziata per reagire alle anomale condizioni del commercio” pensò bene “di assalire i negozi che funzionano con macchine e le case dei molini a vapore per distruggere le prime e danneggiare i secondi, ritenendo che la lavorazione della farina e delle paste alimentari fatte col sistema delle macchine fosse la ragione che spesso abbia fatto deplorare la mancanza di lavoro.

Uomini dalla lingua lunga e dal bicchiere di vino facile e abbondante, i facchini parlarono tra loro e con altri più del dovuto, perché prima ancora di poter attuare quanto si erano prefissati, la notizia era già a conoscenza delle diverse autorità. Tra i primi, quel 22 marzo 1890, lo spaventato sindaco di Torre Annunziata, Gerardo Pennasilico, pensò bene, di scrivere al Sottoprefetto, al commissariato di pubblica sicurezza e ai carabinieri. In quella giornata scriveva al Sottoprefetto anche il vice ispettore di pubblica sicurezza con le stesse allarmanti notizie, specificando e aggiungendo come l’iniziativa nascesse da un centinaio di pastai rimasti senza lavoro a seguito del fallimento delle aziende in cui questi avevano lavorato e da un centinaio di facchini per la mancanza d’arrivi di navi nel porto a causa del cattivo tempo. “ Ma per i facchini provvede il sole ricomparso e l’arrivo avvenutovi ieri di tre grandi vapori carichi due di carbone, uno di ferro”, scriveva qualche giorno dopo il Sottoprefetto al Prefetto dopo un sopraluogo nella città dell’arte bianca “per i pastai che sono meno turbolenti, la ripresa del lavoro continuato non è che questione di giorni…”
Su questa vicenda si erano mobilitati anche i carabinieri della Legione di Napoli, stilando alla fine un rapporto in cui si poneva in maniera diversa la questione sorta a Torre Annunziata: secondo quest’Arma i pastai ed i facchini disoccupati avevano pensato ad una colletta fra i più cospicui commercianti di quella città, i quali spontaneamente li soccorsero con somme di denaro a titolo d’anticipo dei lavori che in prosieguo si andrebbero a compiere. Commercianti e industriali non si erano tirati indietro nel mettere mano al portafogli, ma non di generosa solidarietà si era trattato, quanto di un semplice prestito, un utile tornaconto appena le condizioni di mercato lo avrebbero consentito. Fu questo il motivo scatenante che aveva portato i facchini e i pastai disoccupati ad ipotizzare una sorta d’esproprio proletario nei confronti di alcuni tra i più ricchi stabilimenti dell’arte bianca quali Nicola Cirillo, Francesco Scafa, Orsini e Formisani, Giuseppe De Nicola e Luigi Montella. Immaginiamo le loro lunghe, monotone giornate, trascorse nelle osterie, discutendo tra loro della vita grama e facendo cadere ad un tratto i loro discorsi sulla pelosa generosità dei padroni: come altrimenti la dovevano definire quella carità trasformata in prestito a rendere con gli interessi? Questo prestito poteva soltanto aggravare la loro già precaria situazione e li metteva nelle condizioni di subire ulteriori ricatti sul lavoro, come se non bastassero quelli già costretti a subire dalle avversità della vita.
A Castellammare invece la decisione assunta dall’Impresa Italiana di Costruzioni Metalliche – “specializzata nella trasformazione di ferri laminati o di prima fabbricazione in ponti, tettoie solai, navi, caldaie e in genere in qualsiasi altra costruzione meccanica”, di sospendere dal lavoro la maggior parte dei suoi 250 operai nel giugno 1893 “a causa dei ritardi di materiali che attendeva dall’estero”. Prima di mettere in libertà un così gran numero di personale la direzione aziendale si premunì di avvertire la sottoprefettura affinché predisponesse un servizio di prevenzione e sorveglianza per evitare qualsiasi “perturbamento all’ordine pubblico”, non comportò nessuna particolare reazione da parte dei lavoratori.
Erano tempi quelli in cui le Camere del Lavoro, almeno nel Mezzogiorno, ancora non esistevano – tra il 1890 e il 1891 cominciavano a far sentire i loro primi vagiti quelle di Milano, Torino e Piacenza. A Napoli sarebbe arrivata nel 1894 – e le uniche consolidate organizzazioni operaie di quegli anni erano le numerose società di mutuo soccorso proliferanti a Castellammare come nel resto del Paese, tutte dedite ai compiti istituzionali per le quali erano nate e cioè “l’assistenza esercitata per mezzo della solidarietà (i soci versano una quota e ricevono un sussidio in caso d’invalidità e di disoccupazione), ma la loro attività si estende anche all’assistenza morale, all’educazione ed all’istruzione”. Ma lo sciopero, quest’arma estrema, unica difesa per tutelare gli interessi operai dalla voracità padronale, non rientrava nel vocabolario d’associazioni nate spesso per volontà di ricchi imprenditori o da loro comunque patrocinate per meglio rispondere … alle esigenze nuove portate dallo sviluppo industriale e alla necessità, quindi, di un nuovo controllo da parte delle forze politiche liberali, democratiche e cattoliche sulle classi popolari.
Queste società erano in larga misura egemonizzate da soci onorari, cui era puntualmente affidata la presidenza, rappresentati, nel migliore dei casi, da filantropi i cui interessi coincidevamo sempre con quelli della classe imprenditoriale, quando non erano gli stessi imprenditori a creare queste stesse società di mutuo soccorso per impedire ai propri operai di rivolgersi altrove con tutti i rischi che questo poteva comportare. Ma sull’argomento si rinvia, ancora una volta, al già citato Stefano Merli e al suo indispensabile, per chiunque abbia l’esigenza di approfondire il tema, Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale.

Don Antonio Esposito

( a cura di Massimiliano Greco )

don Antonio Esposito

don Antonio Esposito

Lo scorso Natale ho avuto un regalo particolarmente gradito da Enzo Cesarano, un articolo in ricordo di mio padre pubblicato su liberoricercatore.
Belle parole che hanno commosso me ed i miei famigliari; vedere mio padre nella sezione degli stabiesi illustri, mi ha riempito di orgoglio. Ho salvato la pagina tra i preferiti e non ti nascondo che ogni tanto vado a rileggermi l’articolo.
Castellammare ha una grande tradizione presepistica, ha ed ha avuto grandi artisti. Alcuni ancora viventi fortunatamente, mi vengono in mente don Ciccio Acanfora ed Ulderico Meledandri, altri purtroppo deceduti.
Tutti meritevoli di essere ricordati e non solo per le qualità artistiche. Purtroppo le informazioni che ho sono alquanto scarne, posso solo fare ricorso a vecchi ricordi d’infanzia, quando però gli interessi erano rivolti da tutt’altra parte.
Giusto un accenno sui cataloghi delle mostre di arte presepiale che da tre anni l’Associazione Stabiese dell’Arte e del Presepe propone ma nulla di più. Tra gli artisti del passato, mi piace ricordare la figura di don Antonio Esposito, vero mago della miniatura. Era amico di mio padre, entrambi soci dell’Associazione Italiana Amici del Presepe, don Antonio lo era da 1956. Ho impresso nella mente un’immagine vecchia più di trent’anni; lo ricordo magro, abito talare, basco ed una grossa sciarpa nera al collo, intento a contemplare i pastori ed i presepi che mio padre custodiva gelosamente nelle sue vetrine.
Cercando tra documenti e riviste, ho trovato un articolo del prof. Angelo Stefanucci pubblicato sul numero 86 di giugno 1976 de “Il Presepio”, rivista dell’ A.I.A.P., che rende perfettamente idea del livello artistico e delle mirabilie di cui era capace don Antonio. Continua a leggere

Dott. Comm. Salvatore Imparato

( l’encomio funebre nel suo ricordo )

Dott. Comm. Salvatore Imparato

Dott. Comm. Salvatore Imparato

Caro libero ricercatore grazie per aver creato un sito così bello sulla nostra amata città. Avrei piacere che insieme a tante persone illustri da te citate, ci fosse anche il nome di mio nonno, il Dott. Comm. Salvatore Imparato, che tanto fece per molte persone bisognose di cure. Ti allego l’encomio scritto dal Dott. Giovanni Celoro, il giorno dei funerali di mio nonno. Tale encomio descrive bene che persona egli sia stato. Gradirei che inserissi tutto sul tuo sito.

Con stima, Mariella Imparato.

La nuova Camera del Lavoro nel 1910

Alle origini del movimento operaio di Castellammare di Stabia

di Raffaele Scala

Anno 1910 - Ferrovieri nella stazione di Castellammare di Stabia (archivio liberoricercatore.it)

Anno 1910 – Ferrovieri nella stazione di Castellammare di Stabia (archivio liberoricercatore.it)

CAPITOLO QUINTO

LA NUOVA CAMERA DEL LAVORO NEL 1910

1. Dall’Associazione dei tipografi alla Camera del Lavoro

Dopo questa breve ma necessaria digressione sulle vicende di Piazza Spartaco ritorniamo al tempo dei fatti in precedenza narrati, a quel 1910, l’anno dell’amara sconfitta alle elezioni amministrative della pattuglia socialista con alla testa l’avvocato Raffaele Gaeta.
La scomparsa della Camera del Lavoro pur provocando una profonda crisi nel campo socialista e più complessivamente nel movimento operaio di Castellammare non aveva portato allo scioglimento di tutte le leghe. Alla naturale devastante crisi era seguita una fase di riflessione e il successivo cambiamento di alcuni gruppi dirigenti alla testa delle poche organizzazioni di categoria che non si erano sciolte. Sopravvivevano, per esempio, sotto la veste di cooperative, quelle dei metallurgici, guidati da Vito Lucatuorto, degli edili con il socialista rivoluzionario, Ernesto Aiello e del credito con Gallo. Queste tre cooperative le vediamo partecipare l’11 luglio 1909 al convegno operaio di Torre Annunziata per la Federazione Campano Sannita insieme a un nutrito numero di leghe e alle Camere del Lavoro di Salerno, Caserta, Gragnano, Scafati e, naturalmente, quella della città ospitante. Secondo una corrispondenza dell’Avanti! del 16 luglio, firmata dallo stesso Gino Alfani – subentrato a Cataldo Maldera alla guida della Camera del Lavoro di Torre Annunziata il 1° marzo 1908 – a quel convegno parteciparono i delegati di oltre 50 organizzazioni economiche della Campania in rappresentanza di 4000 iscritti. Alla fine fu deliberata la nascita di un Comitato federale composto da Carlo Califano, segretario confederale e da Vito Lucatuorto, dal salernitano Zurigo Lenzini, dal casertano Visco Crescenzi e Gino Alfani. Tra i primi impegni due comizi a Scafati e a Castellammare dove a parlare furono chiamati, rispettivamente, Lucatuorto e Lenzini.
Leghe e cooperative non facevano, però, di per sé una Camera del Lavoro e la mancanza di una struttura più complessiva si faceva sentire trovando eco nella corrispondenza sul settimanale socialista e della Camera del Lavoro di Torre Annunziata, L’Emancipazione, dove un anonimo cronista nella rubrica Corriere di Stabia scriveva:

L’organizzazione di classe non attecchisce. Le ragioni di questo fenomeno si debbono ricercare e nelle condizioni intime delle classi operaie non ancora spoglie delle scorie del servaggio e dei meschini egoismi individuali e nel falso concetto che esse hanno dell’organizzazione di classe credendole un’organizzazione che abbia un carattere politico…1

Lo sciopero del 14 settembre degli scaricatori di grano del porto, guidati dal loro caporale, Catello Scielzo, tutti iscritti alla Camera del Lavoro di Torre Annunziata, colpì in particolare i due pastifici più importanti di Gragnano, quelli di Alfonso Di Nola e Alfonso Garofalo. L’inatteso conflitto riaprì nuove, sopite tensioni, ma sembrò anche fare da volano alla ripresa dell’iniziativa sindacale. I portuali di Castellammare avevano tentato di imporre agli industriali di Gragnano le stesse tariffe già vigenti per i portuali della vicina Torre Annunziata per la discarica del grano e al rifiuto ricevuto seguì la proclamazione dello sciopero. Per risolvere la questione i due industriali si rivolsero allora ai fratelli Esposito le cui ciurme non erano organizzate, provocando l’immediata reazione degli scaricanti organizzati. Ad evitare il peggio fu l’immediato intervento della pubblica sicurezza portando nei propri uffici i caporioni della rivolta operaia, senza poter evitare di essere però seguiti dagli altri scioperanti. Subito dopo fu nominata una commissione poi ricevuta dal Sottoprefetto, l’abile cavaliere Peri “fortunato compositore di scioperi”. Ed, infatti, ancora una volta, il funzionario del governo riuscì a trovare la soluzione atta ad accontentare i contendenti al punto da far rientrare al lavoro nella stessa giornata gli scioperanti.
La probabile svolta si ebbe, però, qualche giorno dopo quando i tipografi di Castellammare avevano “..capito finalmente che per tenere fronte ai padroni dovevano organizzarsi..”2 e per farlo, dopo un laborioso lavoro preparatorio, decisero di riunirsi la domenica del 18 settembre presso la sezione socialista per fondare la loro lega. A quell’incontro, ancora preliminare, ne seguirono altri con i rappresentanti del Comitato regionale di propaganda della Federazione dei Lavoratori del Libro, arrivando infine all’assemblea finale il successivo 25 nel Circolo Giovanile Italiano, dove tutti gli operai tipografi di Castellammare e di Torre Annunziata costituirono la sottosezione dell’Associazione Tipografi Operai sorta con lo scopo di ribellarsi “.. alla schiavitù di lavorare 11 e più ore al giorno”. In quella stessa giornata elessero Enrico Ding loro presidente; Florindo Lanzaro segretario; Carlo Giandomenico come consigliere e per la funzione di esattore Nicola Longobardi.
Tanto bastò per accendere nuovi entusiasmi e nel giro di poco più di un mese la ricostituzione della nuova Camera del Lavoro, la cui sede doveva probabilmente trovarsi al Corso Vittorio Emanuele 71, poteva dirsi cosa fatta. La prima iniziativa fu di tenere il 13 novembre, nella propria sede, un pubblico comizio di protesta, per sostenere la durissima lotta portata avanti dalle tessili dello stabilimento Wenner di Scafati. Alla manifestazione parteciparono una sessantina di lavoratrici, in rappresentanza delle circa mille dipendenti, quasi tutte donne, in sciopero ormai da diversi mesi, contro il licenziamento per rappresaglia di alcune loro compagne. La lotta era iniziata nei primi giorni di settembre, quando, circa un mese dopo, il 3 ottobre, la forza pubblica interveniva nella contesa con estrema violenza contro le scioperanti e la stessa Camera del Lavoro di Scafati, devastandola. Il fatto suscitò lo sdegno nazionale, provocando interpellanze parlamentari e l’arrivo nel piccolo centro del salernitano di Rinaldo Rigola (1868 – 1954), deputato e Segretario Generale della Confederazione Generale del Lavoro, la potente organizzazione operaia sorta nel settembre 1906 per disciplinare la frastagliata lotta operaia, unificando le decine di federazioni di mestiere sorte in quegli anni e le stesse Camere del Lavoro con un forte centro di direzione nazionale del movimento, stabilito inizialmente a Milano.
Alla manifestazione parteciparono come oratori lo stesso segretario della forte Camera del Lavoro di Scafati, il professore Felice Guadagno e il napoletano Umberto Vanguardia (1879 – 1931), uno degli animatori dello sciopero di Scafati, militante socialista fin dalla prima metà degli anni novanta, segretario dell’associazione dei panettieri e tra i protagonisti della nascita della Borsa del Lavoro a Napoli. A presiedere l’iniziativa, spiegando le ragioni della manifestazione e facendo la storia dello sciopero, fu Raffaele Gaeta a nome della rinata struttura camerale di Castellammare.
Non sappiamo se fu lo stesso avvocato Gaeta ad assumere la direzione della risorta organizzazione economica o se lasciò l’incarico al pur esperto Vito Lucatuorto, attivo militante nelle file socialiste almeno dal 1903, impiegato di banca e professore di computisteria nell’istituto tecnico, Giuseppe Bonito. Lucatuorto già da diversi anni stava maturando esperienze in campo sindacale, dirigendo diverse leghe e dimostrando di essere in grado di assumersi responsabilità più complesse, non a caso era stato uno dei protagonisti della nascita della Camera del lavoro nel 1907 come ora, in questo travagliato 1910. E’ anche possibile, invece, e probabilmente, tra le diverse ipotesi, quella più vicina alla verità, che ad assumere l’incarico di Segretario Generale della nuova Camera del Lavoro, sia stato il neo responsabile della Lega tranvieri, Vincenzo De Rosa, giovanissimo rivoluzionario del 1898 e aspirante sindacalista fin dal 1902, quando aveva maturato la sua prima esperienza guidando la lega metalmeccanica degli operai della Cattori, la prima di cui si ha conoscenza tra i lavorati dell’industria stabiese, dopo quella della Prima Internazionale nel 1869. Così come è altrettanto probabile l’assenza di un Segretario generale, nel senso comune dato a questo titolo, di un responsabile, cioè, che assumesse su di se la responsabilità della direzione politica. Non è da scartare una direzione collegiale dei massimi esponenti del socialismo locale e quindi dei tre dirigenti con alle spalle direzioni di leghe.
In attesa di nuova documentazione, a favore dell’una o altra tesi, noi possiamo anche ipotizzare l’assenza di una vera e propria Camera del Lavoro, nel senso classico del termine, in considerazione della mancata partecipazione al II Convegno Meridionale delle organizzazioni economiche tenutasi nella sede della Borsa del Lavoro di Napoli il 4 e 5 dicembre 1910.3 Un convegno di una certa importanza, dove erano invece presenti Torre Annunziata, Scafati e Gragnano. Il fatto è tanto più strano se si tiene conto della capacità di partecipazione dei socialisti, appena un anno, prima l’undici luglio 1909, pur nell’assenza totale di una Camera del Lavoro, al I Convegno con Vito Lucatuorto, Aiello e Gallo alla testa di tre cooperative. Eppure anche in quello scorcio del 1910 la sezione socialista c’era, era viva e doveva avere una sua importanza come dimostra la partecipazione con Vincenzo De Rosa al Congresso nazionale di Milano del PSI in ottobre e dell’otto dicembre, con Raffaele Gaeta, al Convegno Socialista Campano, tenutosi a Torre Annunziata, dove fu eletto un Comitato direttivo di sette persone allo scopo di dirigere il movimento politico e curare il risveglio delle forze lavorative della regione. L’importanza della sezione stabiese veniva dalla elezione, nel ristretto comitato dei sette, dello stesso Gaeta.
La debolezza di questa Camera del Lavoro si poteva misurare anche dal confronto con la potente organizzazione economica che invece dominava la scena sociale nella vicina Torre Annunziata sul problema del caro dei viveri e delle pigioni. Mentre Gino Alfani proclamava il 18 ottobre uno sciopero generale durato tre giorni e portato in piazza settemila lavoratori con la chiusura di tutte le fabbriche, a Castellammare era il Comitato degli arsenalotti a prendere l’iniziativa con un comizio pubblico nel teatro Savoia il 16 di quello stesso mese con la partecipazione di almeno mille operai venuti ad ascoltare l’avvocato Corso Bovio, consigliere popolare del comune di Napoli e concludendo la manifestazione con un ordine del giorno in cui faceva “voto al consiglio comunale di Castellammare perché voglia avocare a sé la questione delle case popolari e coordinare con un’opera di risanamento igienica della città”.4

Certo in questi ultimi mesi del 1910 non si poteva chiedere molto ad una struttura sindacale ancora in fasce, un embrione d’organizzazione costretta a muoversi, come sempre, tra mille insormontabili ostacoli, ma soprattutto contro le insidie del potente clero. Perché per la chiesa bastava poco per gridare al lupo, sentirsi in pericolo e chiamare alla santa crociata i fedeli contro le oscure forze del male rappresentate da un grumo di socialisti. Che tutto questo – soltanto questo – ancora una volta, fosse in ogni modo sufficiente a turbare le notti di quanti tremavano al solo pensiero del pericolo rosso, si evince da una corrispondenza del 4 dicembre 1910 di un anonimo cronista del quindicinale clericale L’Aurora – curiosamente lo stesso giornale che aveva gridato al pericolo rosso nel dicembre 1907 annunciando gli scioperi proclamati dalla Camera del lavoro di Catello Langella – dove chiamava a raccolta le forze cattoliche per opporsi all’avanzata socialista:

(…) i socialisti stanno facendo immensi progressi fra noi, con la Camera del Lavoro e col circolo giovanile. Castellammare, che alcuni cattolici illusi credevano una rocca inespugnabile per la grande fede del suo popolo, ha visto sorgere in poco tempo la sezione radicale, un circolo repubblicano Giovanni Bovio, un circolo giovanile socialista, una sezione sportiva ed un circolo di cultura anticlericale, una Camera del Lavoro, una sezione dell’associazione Giordano Bruno, un circolo del Libero Pensiero e, peggiore di tutti, la ricostituzione della loggia massonica –satanica, Pitagora.5

Sul nuovo devastante pericolo rappresentato dalla massoneria, il quindicinale ritornò nel successivo numero, il 17 del 18 dicembre dove affermò:

.. per l’opera assidua dell’ex onorevole, avvocato Rodolfo Rispoli, il quale occupa un alto posto in Massoneria, la Loggia massonica Pitagora di Castellammare è stata ricostituita. Essa si è prefissa lo scopo di radunare nel suo seno i principali dirigenti dei partiti popolari per sfruttare il lavoro degli incoscienti giovanotti socialisti. Alla Loggia si sono accostati alcuni vecchi liberali, banderuole di ogni vento, e così è stato iniziato un futuro blocco stabiese. Alla Loggia massonica si deve il sorgere del Partito Radicale a Castellammare ed il circolo di cultura (…) i massoni stabiesi sono riusciti ad infilarsi non solo nel Partito Radicale e repubblicano e quello così detto democratico, ma anche nella sezione socialista, che ormai è asservita alla Loggia.6

Se la stampa cattolica affrontava l’avanzata socialista nel tessuto sociale in termini così preoccupati, addirittura entusiastica era invece la corrispondenza sulla stampa socialista da parte di Alfonso D’Orsi, giovane socialista stabiese figlio di Alfredo, operaio del Regio Cantiere ed ex consigliere comunale eletto nelle elezioni del 1903 nel partito di Alfonso Fusco. Il ragazzo, dirigente della sezione giovanile del PSI, aveva da poco cominciato le sue corrispondenza su La Propaganda e seguiva con trepidazione la lenta evoluzione di questa nuova Camera del Lavoro, di come andò nei mesi successivi rafforzandosi sempre di più con la ricostituzione di diverse leghe operaie al punto da cominciare a preoccupare le forze clerico moderate. Sul settimanale socialista napoletano, Alfonso D’Orsi annotava felice il ricominciare di una nuova guerra dei nervi con i preti che andavano predicando nelle chiese contro i diavoli rossi, mentre i

(…) .padroni hanno opposto delle leghe….tranelli. Leghe che non hanno altro scopo che quello di porre argine al nostro cammino. Promettono, i signori padroni, mari e monti. Perché? Stiano in guardia gli operai e non si facciano prendere in trappola dalle promesse e dai paroloni

scriveva convinto il neo giornalista. Lo stesso entusiasta giovane che scrisse dell’inaugurazione del vessillo della Camera del Lavoro e dei festeggiamenti del successivo 1° maggio.7

A tenere nella città stabiese i discorsi inaugurali per la nuova bandiera della ricostituita organizzazione economica, in occasione della festa del lavoro, anticipata a domenica 30 aprile 1911, vennero Romolo Caggese e il Segretario della Borsa del Lavoro di Napoli, Oreste Gentile, un ex pastore protestante, ex anarchico ed ex orefice, noto massone, forte sostenitore dei blocchi elettorali con i partiti affini (repubblicani e radicali). Gentile aveva sostituito da pochi mesi il dimissionario Eugenio Guarino (1875 – 1938), un sindacalista rivoluzionario, militante del PSI fin dalle origini, chiamato a ricoprire un nuovo incarico nella redazione dell’Avanti! Romolo Caggese (1881 – 1938), professore universitario di storia, autorevole autore di studi medioevali, anche lui massone del Grande Oriente, allo scoppio del conflitto mondiale si schiererà a favore dell’intervento italiano, aderendo poi al fascismo.
Dopo il comizio, tenuto al teatro Savoia, gli operai stabiesi – “un corteo interminabile al quale presero parte 19 bandiere” – con alla testa i due leaders socialisti napoletani, attraversarono le vie della città. In Piazza Orologio furono accolti dalle grida ostili dei giovani cattolici abbarbicati sul balcone della sede del circolo, G. Dèhcon. La situazione stava quasi degenerando in una rissa, non riuscendo i giovani socialisti a trattenersi dal reagire, tali e tanti furono gli insulti piovuti loro addosso. I più anziani dovettero faticare non poco per calmare l’irruenza giovanile dei loro compagni, sapendo come bastasse poco per provocare la reazione della pubblica sicurezza al loro seguito. Indifferenti alle provocazioni dei cattolici contro il corteo, le forze dell’ordine presenti, pubblica sicurezza e carabinieri, erano invece, normalmente, sempre solleciti quando si trattava di sciogliere comizi e manifestazioni operaie. Erano tempi quelli in cui la legge era chiaramente al servizio non dei cittadini ma del potere dominante. In particolare le forze dell’ordine, e non solo l’esercito, erano addestrate in difesa della proprietà, nella palese funzione anti operaia. Per questo facilmente dimenticavano, anzi, trovavano inopportuno intervenire quando in qualche modo erano chiamati a difendere pacifici corteo di lavoratori.
Qualche mese prima anche L’Emancipazione si era occupato di questa nuova Camera del Lavoro, in una corrispondenza del 25 febbraio, accennando a una riunione tenutasi nella sede della Sottoprefettura, il 15 di quello stesso mese, alla presenza di Pietro Frigerio (1861-1927), nuovo Sottoprefetto nativo della provincia di Como e proveniente da Terni. Frigerio aveva preso possesso del suo nuovo ufficio il 17 gennaio. Vittorio Peri era andato via il 22 novembre “.. chiamato ad espletare un alta e importantissima missione nella Capitale della Sicilia”, quale Regio Commissario delle Opere Pie di Palermo. La sera della partenza aveva trovato ad aspettarlo nella stazione ferroviaria, per l’ultimo affettuoso saluto, tutte le massime autorità del circondario: dai diversi sindaci quali Ernesto Fusco di Castellammare, Ciro Macario di Gragnano ed altri; al direttore della locale sede della Banca d’Italia, Astolfo Fontana, del dazio, Simpliciano Maresca; e poi il pretore Girardi, il capitano dei carabinieri Tomasi, il delegato di Pubblica sicurezza, Antonio Vignali e così via.
A sostituire momentaneamente il rimpianto sottoprefetto, nell’attesa della nomina del nuovo funzionario, fattasi attendere per diversi mesi, fu chiamato d’urgenza Giovanni Battista Massara, alla vigilia delle elezioni provinciali parziali del 18 dicembre, da tenersi a Gragnano dopo le dimissioni del duca Riccardo Carafa D’Andria. La sfida era tra l’avvocato Francesco Montefredini e il barone Francesco Girace “..candidato di un signorotto locale, del deputato Alfonso Fusco e del Governo..”8 e forte era la preoccupazione tra le autorità di una possibile vittoria del primo, sostenuto dalle forze democratiche. Vincerà il barone Girace per due soli voti di differenza, ma non avrà molto tempo per gioire perché un ricorso per brogli del Montefredini sarà successivamente accolto capovolgendo il risultato: saranno, infatti, riconosciuti 755 voti a favore del Girace e 757 al Montefredini.
Tra gli intervenuti alla riunione sindacale del 15 febbraio si citano il sindaco Ernesto Fusco, insignito del titolo di commendatore nel settembre 1909, e il Segretario della Camera del Lavoro, con una commissione di beccai, per discutere della vertenza aperta dalla loro categoria da circa un mese. Dopo quattro ore di serrata discussione non riuscirono a trovare, però, nessun accordo. Il contendere era stato l’aumento del prezzo della carne portata da 3 a 3,50 lire, a seguito dell’aumento del dazio da parte del comune e questo aveva provocato notevoli malumori tra la cittadinanza. I macellai si erano detti disponibili a ridurre di nuovo il prezzo di almeno 20 centesimi ma in cambio chiedevano la trasformazione del dazio, ora calcolata sul peso dell’animale, in un dazio a corpo. Non avendo trovato una soddisfacente risposta da parte della Giunta, i cinquanta associati della categoria dei beccai da venti giorni avevano incrociato le braccia tenendo chiusi al pubblico i loro negozi. Contro lo sciopero delle saracinesche abbassate, per ridurre i disagi tra una popolazione sempre più inferocita, l’amministrazione comunale fu costretta a correre ai ripari aprendo un certo numero di spacci di carni vaccine, ritenendo in questo modo di riuscire a fare fronte al protrarsi della protesta dei macellai iniziata il 14 gennaio e magari di piegarli a più miti consigli. Fallita la mediazione sindacale, sindaco e assessori si resero, però, ben presto conto quando questo costava alle esangue casse comunali: fino al 13 aprile la spesa complessiva sfiorò le 50mila lire
La dura vertenza del beccai era in pieno svolgimento quando ad esplodere fu anche la minaccia di uno sciopero generale proclamato dai pubblici esercenti per protestare contro le numerose cooperative di consumo accusate di fare una sleale e spietata concorrenza. A farsi portavoce delle esigenze di questi bottegai fu il consigliere comunale indipendente, Nicola Fusco, invitando in consiglio comunale la Giunta a prendere i dovuti provvedimenti per evitare quest’altro sciopero. Prontamente allarmato, il Sottoprefetto Frigerio convocò la sera del 19 febbraio una commissione composta da salumieri, vinai, panettieri e bottegai vari riuscendo a convincere i riottosi commercianti a desistere momentaneamente dalla loro dimostrazione assumendo l’impegno a trovare una soluzione al problema posto. Ma i giorni passarono senza avvertire nessun cambiamento, sembrava anzi aver superato ogni limite di tolleranza l’invadenza delle cooperative di consumo per niente preoccupate della bufera preannunciata contro di loro, al punto da convincere i più scalmanati a riprendere l’arma dello sciopero generale della categoria. Ancora una volta dovettero intervenire sia il sindaco che il sottoprefetto, nonché il novello paladino dei commercianti, l’avvocato Nicola Fusco per convincere quanti non volevano più sentire ragioni di pacificazione. Ancora una volta questi elencarono le loro ragioni chiedendo un provvedimento teso ad obbligare le cooperative di consumo ad attenersi scrupolosamente allo spirito della legge fornendo cioè i generi alimentari da loro venduti esclusivamente ai soci ed in misura proporzionata e limitata ai bisogni effettivi delle rispettive famiglie. Accadeva invece, sempre più spesso, che i soci ritirassero dalla cooperativa grandi quantità di prodotti rivendendoli a prezzi maggiorati ad amici e parenti. Tutto questo provocava, naturalmente, un enorme danno economico ai commercianti.
Non sappiamo come entrambe le vertenze andarono evolvendosi, ma riteniamo, come sempre accade in questi casi, che la soluzione fosse quella naturale di un compromesso tra le parti, sapendo come questa alla fine servisse soltanto a calmare le acque senza riuscire a dare definitiva sistemazione alla questione.
Ancora una volta, l’organizzazione economica, dopo le schermaglie dei negozianti, provò a misurarsi con uno sciopero operaio, partendo dai metallurgici, i più battaglieri tra le sue avanguardie. Nella loro storia sindacale i motivi d’orgoglio erano stati davvero pochi e per di più di breve durata. Probabilmente erano ancora in quella fabbrica i pionieri del 1902, quelli della prima lega, forse gli stessi che ci avevano riprovato un anno dopo, quando sembrava addirittura fattibile la costituzione di una Camera del Lavoro con il sostegno della sezione socialista, del consigliere provinciale e addirittura con un deputato amico. Non era andata bene e fu quasi un obbligo la lunga pausa dettata dalla ferrea disciplina di Michelangelo Cattori. Il sogno di un’organizzazione vera, duratura, capace di guidare e sostenere le aspettative operaie, sembrò concretarsi in quel tardo autunno del 1907 con Catello Langella, il rivoluzionario accompagnato dall’aureola dei moti del 1898 e dal mito del carcere subito in nome degli ideali socialisti. Il risveglio fu duro, reso forse, ancora più amaro dalla fuga del professore in quelle terre lontane. E fu di nuovo notte, ancora per qualche anno.
Quante cose nel frattempo erano accadute: alla spettacolare e tremenda eruzione del Vesuvio dell’aprile 1906, con le sue bocche di fuoco vomitanti cenere, lapillo e lava in quantità enormi, al punto da provocare ingenti danni nelle diverse province della regione ma desolazione e morte nell’intera area vesuviana, seguì una tremenda scossa di terremoto nell’avellinese, nel giugno di quel 1910, con decine di morti. Come se tutto questo non bastasse, anzi quasi preannunzio di ben altre disgrazie, venne, senza neanche farsi aspettare molto, il colera devastando la Puglia ed arrivando nel napoletano, senza dimenticare di infierire anche su Castellammare, risparmiata dal Vesuvio. Il colera provocò nella Città delle Acque diversi morti e infinite polemiche sulla eccessiva sottovalutazione da parte delle autorità competenti.
Tutto questo, ora, era fortunatamente alle spalle. Altri erano i problemi che si ponevano: c’erano diritti negati da rivendicare, dignità sul lavoro da conquistare, una vita migliore nella quale sperare attraverso la lotta sindacale. E sul fronte del lavoro si erano ben organizzati i compagni dell’arte bianca di Gragnano, costruendo la loro organizzazione economica, mentre qui a Castellammare si arrancava non poco. In molti, probabilmente, si chiedevano se ci si poteva fidare di quegli stessi che, in fondo, avevano sempre fallito. A dare coraggio era, però, arrivata, nel maggio 1911, l’inaspettata adesione degli arsenalotti fatta pervenire attraverso il loro Comitato, suscitando notevole entusiasmo negli ambienti operai. Lo stesso entusiasmo colse, forse, ancora una volta 43 falegnami di questa fabbrica, gli unici organizzati in Lega sui 500 occupati, tornando in questo modo ad incrociare le braccia per provare a rinverdire una stagione il cui gusto era stato appena provato ma mai assaggiato fino in fondo. A questi operai non importava molto il fatto che, solo pochi mesi prima, nel novembre del 1910, il capitano Michelangelo Cattori avesse conquistato un nuovo alloro, ottenendo il Grand Prix all’Esposizione Internazionale di Buenos Ayres, presentando degli esemplari di catene senza saldatura. E’ vero, quelle catene erano state costruite nelle officine di Castellammare utilizzando uno speciale sistema di fabbricazione inventato dall’ingegnere Edoardo Doux, capo dei dipartimenti ferroviari di Roma ed Ancona. Ma cosa avevano da guadagnare gli operai dal fatto che la Camera di Commercio di Buenos Ayres avesse assegnato alla loro azienda un diploma di benemerenza per l’incremento apportato alle industrie, quando l’atteggiamento padronale usato nei confronti dei dipendenti non si scostava di molto da quello di uno schiavista?
Così era arrivato quell’undici agosto 1911 e li aveva spinti a scioperare la solita arroganza padronale, una protervia decisione aziendale di far eseguire daccapo, a spese degli stessi operai, dei lavori di riparazione ad alcuni vagoni ferroviari rifiutati dai collaudatori delle ferrovie perché non erano stati eseguiti secondo le prescritte modalità contrattuali. Come se tutto questo non fosse sufficiente, arrivava anche, per punizione, la riduzione del 25% della loro paga oraria. Naturalmente i falegnami accusati di aver svolto in modo sbagliato quei lavori non erano per niente d’accordo sulla decisione, anzi, accusarono la ditta di averli costretti ad usare materiali non adatti per quel tipo di riparazione, fornendo addirittura legname fresco, ed era questa l’unica causa che aveva impedito un corretto collaudo del lavoro svolto. Dopo aver inutilmente protestato, rendendosi conto di come il capitano Cattori non avesse nessuna intenzione di recedere dalla sua assurda posizione, i 43 operai del reparto falegnameria abbandonarono il loro posto di lavoro. Recatosi alla Camera del Lavoro, su consiglio del Segretario, formarono una commissione e si recarono in Sottoprefettura, dove furono ricevuti dallo stesso Frigerio. Questi, prima di assumere una qualunque decisione, chiese di avere un memoriale con l’esposizione dei fatti e le loro ragioni. Nel frattempo, come sempre, il vecchio Cattori non si lasciò impressionare più di tanto: in qualche modo la direzione aziendale, era consapevole dell’isolamento del gruppo organizzato, come del resto dimostrava ogni assenza di solidarietà da parte degli altri compagni di lavoro, ancora impauriti dalle passate, negative esperienze. Non a caso, del resto, il numero degli aderenti alla lega era così basso e non trovò, quindi, grosse difficoltà a sostituirli con altrettanti falegnami presi da altri reparti. A queste condizioni bastarono pochi giorni d’inutile resistenza per piegare il gruppo di scioperanti e convincerli dell’impossibilità di proseguire nella loro lotta. La maggioranza capì perfino l’inutilità di arrendersi e non volle piegarsi ad una nuova umiliazione, decidendo in questo modo di preferire il licenziamento, trovando ben presto una nuova occupazione presso altri stabilimenti, mentre tre scioperanti, forse in mancanza di una seria alternativa, decisero di rientrare alla Cattori, piegandosi alle decisioni aziendali
Sarà tale lo sconforto provocato tra i dipendenti della Cattori da questa ennesima sconfitta che bisognerà attendere il periodo bellico per vedere riaprire un nuovo ciclo di vertenze sindacali tra i metalmeccanici stabiesi. Infatti, solo tra l’inverno del 1915 e l’estate del 1916 vedremo di nuovo protagonisti gli operai della Cattori e quelli delle officine di Catello Coppola, tutti impegnati in un nuovo ciclo di rivendicazioni economiche.

2. Lo sciopero dei tranvieri e quello dei lavoratori della Domenico Rosa Rosa

Ma per uno sciopero fallito vi è sempre un altro che ha miglior fortuna: è quando capitò ai 94 tranvieri dipendenti della Società Anonima delle tramvie sorrentine. Questi avevano un orario di lavoro di dodici ore per gli addetti all’officina e di dieci per tutte le altre categorie. La paga oscillava da 1.70 dei cantonieri alle 5.40 dell’ispettore. Chiedevano aumenti contrattuali, doppio compenso per il lavoro straordinario notturno e un orario di lavoro di otto ore giornaliere, nonché l’abolizione di un atto di sottomissione per il quale potevano essere licenziati senza nessun preavviso né motivazione, infine chiedevano di non procedere a licenziamenti quando si doveva effettuare una riduzione di personale ma di retrocedere ad avventizi gli ultimi promossi effettivi. Il memoriale presentata dalla Lega non trovò però nessuna risposta e la reazione fu lo sciopero proclamato il 18 agosto portando alla completa sospensione del servizio.
Per tentare di comporre la vertenza s’incontrarono il 23, nella sala della deputazione provinciale, l’assemblea consortile della tramvia Castellammare – Sorrento, con il suo Presidente Aliberti, il Sottoprefetto del Circondario, Pietro Frigerio, il Segretario della Lega tranvieri, l’avvocato Vincenzo De Rosa e una rappresentanza di lavoratori. Sentite le opposte ragioni, il consorzio tentò di convincere i rappresentanti della società a cedere sugli aumenti richiesti, dieci centesimi il giorno. La società era invece disponibile a cedere su tutti gli altri punti concernerti le diverse questioni regolamentari ma non voleva sentire ragioni sugli aumenti salariali e sulla riduzione dell’orario di lavoro. Contrariata dalla rigida opposizione il consorzio chiuse la riunione con un pesante ordine del giorno contro la Società che gestiva la linea tranviaria, ma questo di per sé non risolveva il problema. Così a sbloccare il difficile braccio di ferro fu il diretto intervento economico del consorzio dei comuni rendendosi disponibile ad accordare su base annua un assegno di 500 lire, aumentabile fino a 1000, da dividersi fra tutto il personale. A queste condizioni fu possibile raggiungere l’intesa e il giorno dopo, 24 agosto, i tranvieri ripresero regolarmente servizio9 Riprenderanno le ostilità nell’aprile del 1913, presentando un nuovo memoriale alla direzione della società ed al Prefetto. Non ricevendo risposta furono proclamate due giornate di sciopero che si tennero il 4 e l’11 maggio. Su 94 dipendenti, ben 84 erano iscritti all’Associazione Tranvieri Sorrentini, ciononostante la vittoria si fece attendere e solo dopo qualche tempo furono aperte delle trattative fra la Società ed il Consorzio portando un aumento di 25 centesimi al personale viaggiante.10
In questa prima fase, intanto, vedremo ancora uno sciopero, il terzo di quella calda stagione 1911, quello dei segantini e fabbricatori di casse alle dipendenze della ditta Domenico Rosa Rosa, effettuato il 26 settembre.
La segheria meccanica a vapore di Domenico Rosa Rosa, con i suoi 50 operai fra cassai, segatori ed operatori meccanici, era una delle aziende del settore più importante del circondario. Operava con un grande deposito sul porto di Castellammare, forse, già con il padre, Stanislao Esposito. Piccolo commerciante in legno, nel 1875 Esposito aveva chiesto ed ottenuto di modificare il proprio cognome in Rosa Rosa.11 Questa famiglia continuerà ad operare nel campo della segheria e dei legnami per molti decenni, prima con il figlio Domenico, che sarà anche consigliere comunale, e in seguito con i nipoti, Catello e Gioacchino. Quest’ultimo rivestirà un ruolo di rilievo nell’associazione dei commercianti durante il regime fascista, vice Podestà del generale Raimondo Giovanni Battista nei primi anni ‘30 e infine Commissario prefettizio in una fase molto difficile della vita politica di Castellammare, subito dopo la caduta del regime. L’azienda sarà poi retta dai figli di Gioacchino, i fratelli Catello e Gioacchino Rosa Rosa, fino a quando non cesserà definitivamente di esistere nel 1986.
Dei cinquanta dipendenti, compresi 10 ragazzi, fra cassai, segatori ed operatori meccanici, 13 dei 15 cassai, avevano deciso di entrare in sciopero pur non essendo organizzati in lega e senza essere iscritti alla Camera del Lavoro. “Chiedevano un aumento sui prezzi del cottimo e che questo venisse loro totalmente affidato, riservandosi di corrispondere la retribuzione ai fanciulli che volevano considerare alla loro diretta dipendenza”. A condurre la trattativa fu il loro capo operaio, Catello Criscuolo. La Ditta non aveva, però, nessun intenzione di concedere l’aumento e neanche accolse la strana proposta dei cassai. Come se non bastasse, durante lo sciopero, accortosi dell’isolamento dei 13, rispetto agli altri compagni che mai cessarono di lavorare, assunse quattro operai falegnami in loro sostituzione. Privi della solidarietà dei loro compagni, isolati in una richiesta corporativa, fortunatamente senza precedenti negli annali della lotta di classe, tesa com’era a trasformarli a loro volta in sfruttatori dei loro più deboli compagni, il 2 ottobre, sconfitti, ripresero il lavoro evitando il licenziamento solo grazie all’intervento di mediazione delle autorità di pubblica sicurezza.12
Dovranno trascorrere 65 anni, prima che gli operai della Ditta Domenico Rosa Rosa, nel frattempo denominata Legno Sud e trasferitosi da Castellammare, nella zona industriale di Napoli, in Via Argine, sul finire degli anni sessanta, conoscano, forse per la prima volta, un’organizzazione sindacale, fino a scioperare nell’estate del 1976 sotto le insegne della FILLEA CGIL, il sindacato degli edili e dei lavoratori del legno, per rivendicare, stavolta sì, i loro diritti negati e calpestati.

3. Fragilità della Camera del Lavoro

Per quanto entusiasta le cronache di quel giovane socialista e per quanto preoccupati, se non addirittura spaventati, potevano essere invece i clerico moderati, in realtà questa Camera del Lavoro, come abbiamo già avuto modo di spiegare, doveva essere, niente o poco più di un dopolavoro. Un’organizzazione economica in grado di gestire, forse, soltanto l’ordinario come appunto lo sciopero dei beccai, senza nessuna forza e capacità, cioè, di effettiva organizzazione operaia e di guida dei vari movimenti di lotta, che qua e là esplodevano, isolati nel loro contesto e per questo destinati alla sconfitta. Tant’è che non fornì una brillante prova di sé nei pochi scioperi esplosi in quella pur bollente estate del 1911: la vertenza d’agosto dei tranvieri aveva una sua forza autonoma, quella dei lavoratori della Cattori finì male e, per quanto ci risulta dalle cronache del tempo, l’intervento della Camera del Lavoro fu poco più che simbolico; neanche intervenne in settembre, quando a scioperare furono gli operai della Rosa Rosa. Addirittura questi non erano neanche organizzati in nessuna lega, né erano iscritti alla Camera del Lavoro.
Forse l’imponente corteo del 1° maggio 1912, con la sua banda musicale che suonava l’Inno dei lavoratori e quello di Garibaldi, mentre attraversava le vie della città, con il comizio finale del Segretario della Borsa del Lavoro, Oreste Gentile e degli altri oratori, inorgoglì i socialisti stabiesi, illudendosi di essere finalmente riusciti a mettere in piedi un movimento operaio vero, in grado di affrontare le lotte politiche e sociali. Forse pensarono che la rinata Camera del Lavoro potesse essere finalmente un’istituzione riconosciuta, in grado di imporre la sua volontà, così come già accadeva da anni nella vicina Torre Annunziata. E quel folto pubblico così indignato contro le provocazioni venute da un gruppetto di nazionalisti, ubriachi di quel nuovo vento di destra, provocato dal contagio imperialistico evocato dal sognante maschio futurismo di Filippo Tommaso Marinetti (1876 – 1944), venuti improvvisamente a far tacitare con le loro urla l’oratore, al grido di Viva Tripoli! Viva il Re! non aveva forse qualcosa della grande epopea operaia? Intanto l’oratore, dal palco della Cassa Armonica, parlava con veemenza contro la guerra di Libia, contro i preti pronti a benedire la nuova guerra santa, contro i danni provocati da quel conflitto, inveendo contro quanti avevano salutato quella spedizione pensando ad una semplice passeggiata militare, senza colpo ferire – Ah quest’onnipresente mito della guerra lampo! – e già costato almeno 800 morti in quei primi sette mesi, inchiodando i nostri soldati in quella terra straniera chissà per quanto tempo ancora. Tutto questo non era forse il segno di una maturazione del popolo stabiese, sempre così indifferente alla politica in passato? E anche quella rissa improvvisa per allontanare i disturbatori, quel gruppetto di nazionalisti guerrafondai, primi prodromi di un fascismo portatore di tanti lutti e responsabile del fratricida bagno di sangue, non indicava che finalmente la politica, quella vera cominciava ad appassionare la classe operaia, rendendola sensibile alle questioni sociali? E poi quell’intervento brutale dei poliziotti, sempre pronti a sciogliere comizi indetti dai socialisti, anche quello dava il senso del momento importante che si andava vivendo. Ma non era così.
L’inconsistenza della Camera del Lavoro e la sua repentina scomparsa fu certificata da una relazione del Prefetto del 17 dicembre 1912, quanto, a quella data, elencava le 28 associazioni sovversive esistenti nella provincia di Napoli: Castellammare vi compariva unicamente per la presenza della sezione repubblicana Giovanni Bovio e per il circolo Democratico.13 Tra l’altro la sezione repubblicana, intitolata al grande filosofo e uomo politico, tra i promotori della nascita del PRI nel 1895, Giovanni Bovio (1837 – 1903), era sorta soltanto qualche anno prima, nell’ottobre 1910, inaugurata proprio dal figlio dell’illustre repubblicano, Corso, poi passato al PSI nel 1912, annunciandolo con una lettera aperta pubblicata sul quotidiano nazionale del Partito socialista il 19 aprile.14
Camera del Lavoro e sezione socialista erano, ancora una volta, scomparse, travolte entrambe dall’ennesima crisi esistenziale. Nell’elenco prefettizio non è citata neanche la Sezione Giovanile Socialista, quella stessa canzonata dall’Aurora nell’ottobre 1910, quando così definiva i suoi militanti: “.. quattro mocciosi che si ficcano ancora le dita nel naso e che non sono riusciti nemmeno in parte a vincere la loro avversione per la catinella dell’acqua e per la saponetta..”. Quattro mocciosi, poi diventati sedici “pallidi, emaciati giovincelli“, riusciti a impadronirsi del Circolo culturale dove spadroneggiavano facendovi propaganda socialista e imponendo l’abbonamento a riviste socialiste, anarchiche e anticlericali. Tra le 28 associazioni sovversive compaiono la Camera del Lavoro di Gragnano con le sue due leghe di mugnai e pastai, quella di Torre Annunziata con la sua Federazione socialista rivoluzionaria della Campania, la sezione socialista e quella repubblicana Luigi Zuppetta. Perfino nella tranquilla, sonnacchiosa Boscoreale è segnalata un’Associazione socialista ma non a Castellammare, ormai evaporata.
Antonio Cecchi così descriveva le condizioni della classe operaia di Castellammare di Stabia prima della guerra, in un suo articolo sul Soviet, del 6 febbraio 1921, all’indomani dei fatti di Piazza Spartaco:

…Fino allo scoppio della guerra europea, Castellammare non aveva movimento sindacale e solo un vivace nucleo di socialisti si sforzava di richiamare la coscienza degli operai alla realistica visione della lotta di classe…le basse e miserevoli condizioni di vita in cui si muoveva il proletariato stabiese non consentivano alle masse di comprendere il nostro insegnamento. Vi era tutta una fitta rete d’interessi e pregiudizi che stringeva il proletariato al carro delle cricche e delle clientele locali. Il sentimento…e gli interessi stessi della classe operaia erano soffocati dal fenomeno degenerativo della politica locale. Il fuschianesimo – da Alfonso Fusco, potente uomo politico locale che era stato sindaco e deputato – e il versipellismo dell’ex repubblicano Rispoli, furono le sole luci politiche che fino al 1914 raccoglievano le masse operaie per farle partecipare alla vita politica….

Un giudizio duro e senza appello da condividere solo in parte, perché agli operai non venne mai meno il coraggio, la forza di scioperare anche in condizioni avverse. Quella che mancò fu un’avanguardia in grado di interpretare e incanalare queste energie, altrimenti disperse nei mille rivoli dell’individualismo corporativo delle diverse Leghe. Non si spiegherebbe altrimenti l’entusiasmo suscitato dalla nascita della Camera del Lavoro, in quell’autunno del 1907, tra le diverse categorie operaie, quando queste si andarono costituendo nelle diverse Leghe, sotto la spinta dirompente di Catello Langella e della sezione socialista. Un entusiasmo vero spento soltanto in seguito alla dimostrata incapacità della sua direzione politica, così come accadrà nel 1910-12, quando a dirigere la Camera del Lavoro dovevano essere Raffaele Gaeta, Vito Lucatuorto, Vincenzo De Rosa e gli altri di sempre, tutti sicuramente animati da una generosa volontà di riuscire. Ma questo, come la storia c’insegna, da sola non è sufficiente.

4. La Camera del Lavoro di Gragnano

Perfino una cittadella come Gragnano, con una popolazione sostanzialmente assestata intorno alle 14mila unità tra il 1881 e il 1911, era riuscito a fare meglio di Castellammare: dopo la fondamentale esperienza costruita con la sua prima fragile lega pastai, fondata da un piccolo, coraggioso nucleo di operai della Garofalo nel 1901 con i suoi scioperi, ora vittoriosi, ora perdenti, in quei primi anni del secolo, c’era stata una profonda, ma breve crisi dalla quale ne era uscita nel 1908. Nel settembre di quell’anno, la Lega era stata rifondata e già nel febbraio successivo si presentò al Convegno di Torre Annunziata dove si costituì la Federazione Interregionale Campano Sannita. Ancora pochi mesi e finalmente, il 13 giugno 1909, il grande sogno divenne realtà con la fondazione della Camera del Lavoro, il cui nerbo era costituito dai pastai e mugnai e dando da subito bella prova di sé impegnandosi in una serie di scioperi memorabili con alla testa il suo Segretario Generale, il ferroviere con qualifica di frenatore, Luigi Perillo. Si misurarono da subito, sostenendo l’ennesimo sciopero proclamato dai pastai della Garofalo, venendo loro in aiuto deliberando il 23 giugno la cessione di una giornata di paga da parte d’ogni operaio a sostegno dei compagni in lotta. Contemporaneamente, a seguito di un’assemblea degli iscritti, si richiedeva per tutti un aumento di 15 centesimi per ogni quintale di pasta prodotta. Quattro giorni dopo la richiesta era comunicata al sindaco affinché se ne facesse interprete nei confronti degli altri imprenditori cittadini, ma la risposta non venne e la proclamazione dello sciopero da parte dei lavoratori dell’arte bianca divenne inevitabile. Così, mentre gli operai della Garofalo chiudevano il loro accordo raggiungendo ben 1,05 lire per ogni quintale di pasta lavorata, i compagni delle altre fabbriche iniziavano lo sciopero generale della categoria il 5 luglio dimostratosi subito compatto. Riavutosi dalla sgradita sorpresa per un’iniziativa senza precedenti in quella ritenuta, fino a quel momento, una vera e propria rocca clericale, convinti che gli unici eretici erano quel manipolo asserragliato nel pastificio di Alfonso Garofalo, gli industriali reagirono cercando nuova manodopera a Torre Annunziata: in 15 accettarono la proposta di lavoro, ma appena arrivati a Gragnano gli operai torresi si resero conto dello sciopero in atto e se ne tornarono immediatamente nella loro città. Durante lo sciopero, Luigi Perillo per la neonata struttura camerale e Sebastiano Buono e Francesco D’Avino, in rappresentanza della Lega pastai, parteciparono al Convegno regionale delle Camere del Lavoro tenutosi a Torre Annunziata l’11 luglio con la presenza di oltre 50 organizzazioni economiche della Campania in rappresentanza di circa 4mila iscritti.
Fallito il tentativo di assoldare crumiri nella vicina Torre Annunziata, gli industriali si decisero ad aprire il tavolo della trattativa, senza comunque riuscire a fare molti passi in avanti. Convocati allora dal Sottoprefetto Peri, il Segretario della camera del Lavoro si presentò accompagnato da una folta delegazione composta dagli operai Salvatore D’Auria, Francesco D’Avino, Vincenzo Malafronte e Baldassare Scarfati ma non per questo si ottennero migliori risultati, anzi, addirittura gli industriali minacciarono la serrata se non si riducevano le pretese. Abituato a ben altre e più complesse situazioni, il Sottoprefetto con la sua solita, abituale pazienza, cominciò a tessere la sua infallibile mediazione per la quale era ormai famoso, riuscendo infine a far firmare l’intesa, dopo circa 20 giorni di sciopero, con un aumento di 10 centesimi a quintale. La debacle degli industriali non poteva essere più completa, come strillò Il Mattino del 28 luglio dopo aver servilmente taciuto sull’intera vertenza.
Per troppo tempo gli industriali di Gragnano avevano dormito sugli allori ed ora non sapevano più a quale santo votarsi pur di far scomparire la nascente organizzazione operaia. Cominciarono allora a vendicarsi nei loro pastifici, aumentando le angherie nei confronti dei dipendenti e inutilmente la Camera del Lavoro protestava chiedendo l’intervento del Sottoprefetto. I padroni dei pastifici e dei molini piccoli e grandi infittirono le riunioni tra loro, convocarono esperti, si consultarono, forse, con i loro colleghi di Torre Annunziata e alla fine partorirono l’Associazione degli Industriali, ma questo non impedì all’organizzazione operaia di rafforzarsi con sempre nuove massicce adesioni, mentre altre leghe, come quelle dei carrettieri e degli scaricanti delle ferrovie, si andavano formando.
A Torre Annunziata si era appena consumato l’ultimo grande sciopero dei pastai, durato dieci giorni e conclusosi il 22 gennaio 1910, quando a Gragnano si preparavano a dissotterrare l’ascia di guerra e nei primi giorni di febbraio fu dichiarato il secondo sciopero generale dei lavoratori dell’arte bianca. Il 1° febbraio in assemblea mugnai e fuochisti avevano stabilito di chiedere un aumento di 25 centesimi dando facoltà agli industriali di prendere una decisione entro la domenica successiva: una pausa di sei giorni sembrò alla lega un tempo congruo affinché l’Associazione degli Industriali potesse consultarsi, decidere e dare una risposta. Così non fu, perché il sei febbraio fu, accompagnato dal silenzio degli imprenditori, indisponibili a discutere d’aumenti nonostante fosse noto che il salario pagato ai loro operai fosse il più basso della provincia, e lo sciopero fu immediato a partire dal 7 febbraio. Le altre leghe di meccanici e falegnami dei molini e quella dei pastai stabilirono di proclamare lo sciopero di solidarietà a partire dal 13, mentre sottoscrizioni di sostegno alla vertenza cominciavano a giungere dalla vicina Torre Annunziata attraverso la lega metallurgica con versamenti in denaro, quella dei pastai inviando carri pieni di pasta e farina e dalla stessa Camera del Lavoro guidata da Gino Alfani. E quando la lotta cominciò a farsi più aspra intervenne con sottoscrizioni e fondi propri anche la Camera del Lavoro di Scafati mentre una nuova assemblea generale a Torre Annunziata proponeva lo sciopero generale a sostegno dei compagni di Gragnano. Solo l’intervento del Segretario della Lega mugnai della cittadina in sciopero, presente alla discussione, fermò la deliberazione camerale ringraziando tutti per il loro impegno, ma invitandoli a desistere, ritenendo sufficiente il sussidio che essi davano per sostenere la lotta. Il municipio era appena uscito dall’ennesima crisi amministrativa affidando al barone Francesco Girace la funzione di pro sindaco, in attesa delle nuove elezioni di fine luglio, quando si trovò coinvolto in questa nuova e più violenta tensione sociale, ma stavolta, nonostante un’eroica resistenza, la vertenza prese una brutta piega. Si chiese allora di nuovo l’intervento del Sottoprefetto, al quale fu inviato il memoriale con le richieste avanzate e mandata una commissione composta di due mugnai e due pastai per spiegare le loro ragioni. Gli industriali fecero sapere di essere disponibili a trattare soltanto “.. Quando la Camera del Lavoro sarà chiusa…”, provocando nuove proteste e l’invio di telegrammi alla Confederazione del Lavoro e all’Ufficio del Lavoro contro la palese provocazione padronale. Il 20 febbraio fu tenuto un grande comizio in piazza dove presero la parola Luigi Perillo, diversi segretari di lega ed esponenti sindacali di Torre Annunziata e Napoli per informare la cittadinanza sullo stato dello sciopero. I giorni passavano senza fare nessun passo in avanti e allora gli industriali decisero di forzare la mano telefonando in Sottoprefettura e denunciando un presunto tentativo di linciaggio nei loro confronti da parte degli operai. Ma Vittorio Peri era un funzionario troppo esperto per cadere in un simile inganno: convocò dapprima il segretario della lega mugnai, Vincenzo De Rosa, dal quale seppe che nulla di quanto denunciato corrispondeva al vero, poi si recò a Gragnano facendo subito intendere al presidente dell’Associazione Industriali “che La propalazione di una simile denuncia avrebbe fatto incorrere gli autori in qualche articolo del codice penale.” Non era mai accaduto in precedenza che un Sottoprefetto avesse usato un tono così perentorio nei confronti d’imprenditori abituati da sempre ad avere le istituzioni al loro servizio e tale quindi fu l’irritazione suscitata da questa presa di posizione che l’Associazione Industriale rispose immediatamente con un ordine del giorno di protesta contro il funzionario di stato e denunciandolo al Prefetto De Seta e al Ministro dell’Interno quale “violatore della libertà dei cittadini.”. Non contenti si rivolsero al deputato del collegio, Alfonso Fusco, affinché a sua volta intervenisse per far allontanare dal circondario quel funzionario amico dei sovversivi.
Il 7 marzo, dopo più di un mese di lotta senza che se ne intravedesse la fine, una parte degli operai rientrò nelle fabbriche provocando sconcerto e rabbia tra quanti invece erano decisi ad andare fino in fondo. I più accesi tentarono di impedire la ripresa del lavoro, ma l’immediato intervento della forza pubblica riuscì a proteggere “energicamente la libertà del lavoro, eseguendo diversi arresti e tenendo a rispettabile distanza gli scioperanti dagli opifici in attività.”. Il 18 marzo anche gli ultimi irriducibili furono costretti a riprendere il lavoro, strappando unicamente l’impegno ad una successiva apertura della trattativa da parte degli industriali.
Nonostante la pesante sconfitta, la Camera del Lavoro di Gragnano non andò in crisi, almeno non subito, riuscendo a ricompattare la sue fila e ad organizzare la Festa del Lavoro, la prima della sua storia. Quel giorno di festa del 1910 duemila persone si erano mosse da Piazza Ferrovia con tanti giovani, musica e bandiere percorrendo Via Giovanni Della Rocca, via San marco, Trivione, Conceria, fino a Piazza san leone dove si tenne il comizio. Nel lungo, allegro, variegato corteo, aveva sfilato la banda musicale di Scanzano, la sezione giovanile e le leghe dei vetturini e metalmeccanici di Castellammare. Nel pomeriggio la replica nella città termale con tanto di corteo e comizio finale in villa comunale con oratori i segretari delle Camere del Lavoro di Gragnano e Torre Annunziata.
Intanto gli industriali, pur uscendo vincitori dallo scontro, non trovavano pace: quella Camera del Lavoro toglieva loro il sonno, tremavano al pensiero di un nuovo sciopero e quella festa del primo maggio, con le sue bandiere, i suoi canti popolari, tutti quei sindacalisti venuti da fuori a rovinare i loro operai con quelle strane idee d’uguaglianza, diritti, libertà, solidarietà, giustizia sociale, rivendicazioni economiche, non era fatta per rasserenarli. Bisognava fare qualcosa e subito, quindi in accordo con il partito clericale costituirono un’Unione cattolica operaia verniciata di principi democratico cristiani con l’unico scopo di strappare il maggior numero possibile di operai alla Camera del Lavoro, ma fallendo miseramente nel loro intento.

La crisi nell’organizzazione operaia era in ogni modo alle porte, ma non ne conosciamo i motivi: forse la stessa sconfitta dopo quei due mesi di furiosa battaglia di febbraio marzo 1910, forse una certa stanchezza del suo segretario generale, Luigi Perillo che lo portarono alle dimissioni o forse se ne andò preso dal suo lavoro di ferroviere nel compartimento di Salerno. Di certo la Camera del Lavoro di Gragnano dopo il canto del cigno della grande manifestazione del primo maggio, non continuò a godere di buona salute e andò, se non in coma, sicuramente in una sorta di dormiveglia. Sappiamo della partecipazione al Convegno Meridionale delle organizzazioni proletarie per costituire la Federazione Meridionale tenutosi presso la Borsa del Lavoro di Napoli, il 4 e 5 dicembre di quell’anno: quaranta delegati della Campania, della Puglia e della Basilicata in rappresentanza di circa 60mila lavoratori per discutere della questione meridionale alla presenza del deputato napoletano Ettore Cicciotti che tenne la relazione sull’argomento, mentre ad aprire i lavori fu il Segretario Generale della Borsa di Napoli, Oreste Gentile. Così com’era presente con le sue bandiere alla Festa del Lavoro del maggio 1911 tenutosi a Castellammare, dove intanto rifioriva una nuova Camera del Lavoro. In tutto il 1912 non si ha nessuna notizia di scioperi e manifestazioni e legittimo sarebbe credere ad una sua scomparsa, quando dall’Avanti! del 10 settembre ricaviamo la partecipazione di Francesco Mosca e Baldassare Scarpato, quali delegati della lega pastai di Gragnano al I Convegno Meridionale tra i lavoratori dell’Arte Bianca tenuto due giorni prima nella sala del consiglio comunale della solita Torre Annunziata, su iniziativa del pirotecnico Gino Alfani, non a caso chiamato alla presidenza. Una relazione del Prefetto di Napoli al Ministro dell’Interno del 17 dicembre né conferma l’esistenza riportandone anche il numero d’iscritti, 290, divisi nelle sue due leghe dei mugnai (120) e pastai (170); meno di due settimane dopo, un nuovo rapporto del Prefetto ne indica anche la sede in Via Pasquale Nastri – Casa Colneci. Un certo risveglio si registrò nel 1913, probabilmente con la venuta del nuovo Segretario Generale, Beniamino Romano, combattivo capo lega dei mugnai di Torre Annunziata, trasferitosi a Gragnano per garantire un minimo d’organizzazione e di direzione ai disorientati operai organizzati nella Camera del Lavoro; è di aprile, infatti, il vittorioso sciopero in un pastificio con protagonista un giovanissimo Oreste Lizzadri, figlio di un ferroviere, fervente militante socialista Il ragazzo dopo la morte prematura del padre avvenuta per malattia nel 1911, era stato costretto ad abbandonare gli studi e a cercarsi un lavoro. Lo trovò in quello stesso pastificio dove scioperò a 17 anni, provocando con ciò la svolta decisiva della sua vita: in quegli stessi giorni, infatti, con Mario Vicinanza ed altri partecipò alla fondazione della prima sezione socialista nella storia operaia di Gragnano, ritrovandosi, quasi contemporaneamente proiettato ai vertici della lega e dirigente della Camera del Lavoro cittadina. Probabilmente ne assunse anche la direzione in prima persona per un breve periodo tra il ritorno a Torre Annunziata di Romano e il rientro di Perillo a Gragnano La sezione socialista di Gragnano contava inizialmente 40 iscritti ma quando il giovane Lizzadri e i suoi compagni si avviarono sulla strada dell’intransigenza, molti non se la sentirono di seguire questa strada, riducendosi ben presto a soli 16 iscritti.
Alla partenza di Luigi Perillo dovette seguire una fase di stasi, di vuoto politico, perché soltanto il successivo 17 settembre abbiamo notizia di Beniamino Romano quale segretario della Camera del Lavoro, attraverso una corrispondenza del Mattino dalla cittadina famosa nel mondo per il suo buon vino e l’ottima pasta di grano duro. L’occasione è una pubblica assemblea nella sala del consiglio comunale, alla quale egli partecipa, per discutere di un progetto per realizzare nuove case operaie sul suolo dell’antico convento del Trivione, presentato dalla giunta guidata dal barone Francesco Girace. La riunione si concluse con la nomina da parte del sindaco di una commissione composta di tre operai e tre rappresentanti del comune per studiare tempi e modi di realizzazione dell’opera. Pochi giorni dopo un comizio nella Camera del Lavoro di Gragnano a favore della candidatura nelle elezioni politiche del 26 ottobre di Mario Bianchi, l’esponente intransigente del Circolo Carlo Marx guidato da Amedeo Bordiga, riportò di nuovo alla ribalta il neo segretario dell’organizzazione economica locale. Tra gli oratori, oltre a Romano, ci furono Bordiga e la sua giovane compagna, Ortensia De Meo suscitando grande entusiasmo tra i presenti.
Il 1913 si chiuderà con un nuovo forte sciopero in dicembre, a sostegno e in solidarietà di un capo operaio ingiustamente licenziato, ancora una volta alla Garofalo. Il 20 dicembre, a sostenere i combattivi operai, vennero nella cittadina dei Monti Lattari la compagna di Bordiga, la coriacea Ortensia De Meo e Mario Bianchi, ma gli industriali avevano ben altre armi per piegare la resistenza dei lavoratori e primo fra tutti l’uso di crumiri di professione provenienti da Torre Annunziata. Per essere certo che nulla potesse accadere, Alfonso Garofalo ordinò ai crumiri di dormire in fabbrica e di uscire mai né di giorno, né di notte. Ma la nostalgia della famiglia può giocare brutti scherzi, così alle quattro del mattino della domenica del 19 gennaio il gruppo di torresi uscì avviandosi verso la stazione ferroviaria certi di farla franca. Avvistati da un gruppo di scioperanti, furono avvicinati, nacque una discussione animata presto tracimata in rissa e infine in un vero e proprio conflitto a fuoco. Non ci furono feriti, anzi, benché armati furono ridotti a mal partito dal nutrito gruppo di scioperanti armati di randelli e costretti comunque a fuggire.
Lo sciopero si chiuderà il 29 gennaio con l’intervento del commissario di polizia, Buschi, chiamato a mediare tra le parti su interessamento dello stesso Prefetto. Se tutto era iniziato a seguito del licenziamento di un caporale, ritenuto ingiustificato dagli operai e per questo scesi in sciopero per solidarietà con il compagno, ben presto questo si era trasformato in uno sciopero politico, di adesione alla linea oltranzista assunta dal PSI in campo nazionale e di resistenza all’oppressione della borghesia, a riprova dell’influenza determinata dalla svolta impressa dal giovane Lizzadri, nuovo leader attestato sulla linea dell’intransigenza. Non altrimenti si spiega la formidabile prova di forza dimostrata dai lavoratori, capaci di scioperare per ben due mesi, vivere un conflitto a fuoco, per fortuna senza spargimento di sangue, subire le angherie e le prepotenze delle forze dell’ordine al servizio del padrone, riuscendo infine a piegare la resistenza di Alfonso Garofalo obbligandolo a riassumere il caporale.
Bisognerà poi attendere il 1915 per ritrovare nuovo combattivo entusiasmo, quando il 14 gennaio i mugnai e i pastai abbandonarono in massa i loro opifici per partecipare ad un’assemblea in cui si decideva di chiedere un aumento di salario. Dopo tre ore di discussioni sulle richieste da fare fu deciso di nominare un comitato d’agitazione. Come primo atto si recarono dal sindaco chiedendogli di farsi interprete delle ragioni operaie e di invitare gli industriali per avviare una prima discussione. Solo quattro imprenditori si presentarono alla convocazione del Primo cittadino provocando la sdegnata reazione dei lavoratori: questi diedero 24 ore di tempo per decidersi a dare una risposta, in assenza della quale avrebbero incrociato le braccia. Il Comitato d’agitazione attese inutilmente e nella serata di venerdì 15 proclamarono lo sciopero, mentre gli industriali si riunirono decidendo di arrivare, in casi estremi, alla serrata. Ma per lo sciopero non poteva esserci momento più sbagliato: l’industria napoletana durante il conflitto europeo, nel periodo della sua neutralità si trovò ad affrontare una delle sue crisi più gravi. Crisi che investì in primo luogo il settore metallurgico e metalmeccanico colpendo tra gli altri lo stesso cantiere navale di Castellammare, ma non di meno interessò l’industria delle paste alimentari, in particolare quella di Torre Annunziata e di Gragnano interessata ad un tipo di produzione di lusso esclusivamente destinato ai mercati esteri, aggravata da un decreto del 6 agosto che ne proibiva l’esportazione.
Tutto questo comportò in breve tempo un aumento considerevole della disoccupazione e il conseguente indebolimento della resistenza operaia. Non a caso i diversi scioperi di questo periodo conobbero, uno dopo l’altro, l’acre sapore della sconfitta, così come accadde nella vicina Torre Annunziata in quegli stessi giorni dove uno sciopero di braccianti fallì clamorosamente. A mediare tra le parti in lotta c’era l’antico Segretario Generale della Camera del Lavoro, Cataldo Maldera ora nelle vesti d’assessore e vice sindaco

Il ritorno di Luigi Perillo alla guida della Camera del Lavoro non modificò sostanzialmente le cose: licenziato dalle Ferrovie per aver partecipato ai moti di Napoli del 9-12 giugno 1914 – dilagati in tutta Italia a seguito dell’ennesimo eccidio proletario perpetrato ad Ancona, la domenica del 7, durante una pur turbolenta manifestazione conclusosi con un conflitto a fuoco tra anarchici e forza pubblica, provocando la morte di tre dimostranti, quattro moribondi e numerosi feriti tra cui 17 carabinieri – l’intrepido ferroviere riprese il suo posto di battaglia, tenendo nell’aprile 1915 una conferenza contro la guerra nel salone della Camera del lavoro di Gragnano e guidando, pochi giorni dopo una forte protesta popolare contro il continuo rincaro del pane e contro la dilagante disoccupazione. A conclusione di questa manifestazione, una commissione d’operai, guidati dal loro Segretario Generale, fu ricevuta dal sindaco e dalla Giunta comunale avviando con loro una serrata discussione e raggiungendo un accordo per favorire il calo del prezzo del pane e la ripresa dell’occupazione attraverso nuovi lavori pubblici. Queste iniziative furono salutate con enfasi dall’Avanti! ma provando con ciò anche quando profonda fosse stata, e in qualche modo continuava ad essere, la crisi della piccola organizzazione economica. Questa crisi rispecchiava una situazione economica la cui forza o debolezza risiedeva unicamente nella capacità produttiva del suo settore trainante: quell’arte bianca messa in ginocchio da una situazione internazionale ormai sfuggita alla capacità di governo di chi reggeva in quel momento le sorti del paese, la cui politica sembrava più tesa a risolvere l’enigma che l’attanagliava e che già da tempo la divideva tra chi era favorevole all’intervento e quanti invece propugnavano la neutralità assoluta.
Era tale lo stato di crisi a Gragnano che su 34 pastifici erano appena quattro quelli ancora aperti, mantenendo un minimo di produzione e quindi d’occupazione.

Intanto nella vicina Castellammare un grappolo di ragazzi, quasi tutti studenti, alcuni operai e qualche giovane laureato, cominciarono a raccogliersi intorno al futuro leader del Partito Comunista d’Italia, Amedeo Bordiga. Fondarono un giornale, La Voce, praticamente organo ufficiale del Circolo Socialista Rivoluzionario Intransigente, Carlo Marx, e questo diventerà ben presto il loro abituale luogo d’incontro e di discussione politica. Ricostruirono per l’ennesima volta, la sezione socialista o, per meglio dire, ridiedero linfa vitale ad un asfittico circolo giovanile trasformandolo nella temibile sezione giovanile socialista antimilitarista, vera e propria fucina di dirigenti d’altissimo spessore politico e protagonisti della nascita del partito comunista. Una relazione del Prefetto datata 3 agosto 1913 e successivi appunti ne certifica l’esistenza e la pericolosità dei suoi elementi. Oscar Gaeta, giovanissimo segretario della sezione socialista e Antonio Cecchi proveranno anche a riorganizzare una spenta Camera del Lavoro affidandone la guida all’ancor più giovane Oreste Lizzadri, che tanta buona prova di sé aveva dato negli scioperi e manifestazioni della struttura camerale e della sezione socialista della vicina Gragnano. Solo pochi confusi mesi, poi tutto sarà travolto dalla bufera della guerra e niente sarà più come prima.

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Fonti utilizzate:
Confrontare giornali e periodici dell’epoca:
l’Avanti!
La Propaganda
L’Emancipazione
Il Mattino
Roma
L’Aurora
L’Archivio Centrale di Stato (ACS)
L’Archivio Storico Comunale di Castellammare di Stabia (ASC)
Bollettino del lavoro (BUL).


Note:

  1. L’Emancipazione n° 22 del 4 giugno 1910 “ Necessità dell’organizzazione di classe”;
  2. La Propaganda n° 890 1° ottobre 1910 “Organizzazione” di Alfonso D’Orsi;
  3. Nella mia nuova e definitiva ricerca sul movimento operaio stabiese, ancora inedita, svelo il mistero di questa convulsa fase vissuta dalla Camera del Lavoro;
  4. Avanti! 19 ottobre 1910, “ Contro il rincaro dei viveri e delle pigioni” di Ignazio Esposito;
  5. L’Aurora, giornale politico amministrativo del circondario di Castellammare, anno IV, n° 16 del 4 dicembre 1910 “La nuova tattica della massoneria stabiese”;
  6. Ibidem, 18 dicembre 1910 “Ancora la massoneria stabiese”;
  7. La Propaganda n° 917 del 8-9 aprile 1911, “Leghe…tranelli”, di Alfonso D’Orsi;
  8. Avanti! 24 dicembre 1910;
  9. ACS BUL, vol.XVI, n° 4, ottobre 1911 pag. 611-612;
  10. ACS BUL, vol. 20, n° 1, luglio 1913, pag. 40;
  11. ASC: “Domanda di Esposito Ferdinando ed altri per cambiare il loro cognome in Rosa Rosa”, busta 245, inc. 8, 1892;
  12. ACS BUL vol. XVII, gennaio giugno 1912, pag. 66;
  13. ACS, DGPS “Associazioni”, busta 126, f. 416;
  14. A differenza del padre, Corso Bovio (1880 – ?) avrà un percorso politico all’insegna del trasformismo, al punto da essere espulso dal partito nel 1925 finendo poi per aderire al fascismo e dirigendo l’Ufficio corrispondenza del quotidiano Il lavoro fascista nel 1931. Cfr., Franco Andreucci – Tommaso Detti: Il Movimento Operaio Italiano…cit., Vol. 1°, pag. 392-394;