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Come cominciare… e smettere di fumare

Come cominciare… e smettere di fumare

smettere fumare

Il muro della Reggia (foto Corrado di Martino)

Separare noi quattro era praticamente impossibile. Il professor Esposito, insegnante di Storia e Geografia che con le sue mani pesanti e nodose aveva piegato fior di delinquenti, con noi quattro non sortiva alcun risultato; forse perché non eravamo i soliti lestofanti, o perché troppo vivaci ed insofferenti, non riuscivamo ad apprezzare il suo verbo, fatto di metodo antico e severità.
Michele Tucci guidava questo sfrenato gruppo. Peppe Amore e Michele Tramparulo con me completavano il quartetto.
Al grido di Michele: “Jammuncene!”, non ci fu alcun tentennamento, partimmo, subito, una mattina di primavera, quando marinare la scuola è più piacevole, alla volta dei boschi di Quisisana.
Al principio della Salita Quisisana, appena lasciata via Panoramica, sulla destra, dovrebbe esserci ancora oggi, un canalone permetteva agli impavidi di arrampicarsi accorciando sensibilmente il percorso verso la Fontana del Re, poi correndo trasversalmente nella boscaglia, si poteva raggiungere la base dello scalone centrale della Reggia in poco tempo. Tramparulo si infilò per primo in questo condotto, lanciando la solita sfida: “Chi arriva per ultimo è ricchione!” A quell’età non sapevamo nemmeno ciò che dicevamo, sapevamo solo che quello era il segnale di start della gara quotidiana. Nei due filoni precedenti ero stato sorpassato da tutti, questa volta non intendevo arrivare ultimo, quindi iniziai a correre come una lambretta.

Arrivato per primo nei pressi della scala, mi issai sul muro che è posto proprio di faccia ad essa, come a dichiarare la mia supremazia. Gli altri giunsero poco dopo. Michele Tucci che aveva rubato a suo nonno tre Alfa (Alfa era la cosiddetta sigaretta dei muratori, pesante e puzzolente), me ne passò una accesa, era un riguardo che non potevo non riverire, inspirai con forza il tabacco, forse lo sforzo sostenuto, forse l’effetto dirompente della sigaretta dei muratori su un giovane di poco più di undici anni, mi provocarono una vertigine che mi fece cadere dall’altra parte del muro, proprio nel giardino della Reggia di Quisisana. Mi raccolsero, ancora stordito, i miei amici spaventati e attoniti come me, ed un contadino di buona volontà. Né prima, né dopo di quel giorno ho toccato mai più una sigaretta.

Corrado di Martino.

Pasolini, gioca a calcio in strada (foto tratta dal web)

1946: il “Calcio” a Scanzano

1946: il “Calcio” a Scanzano

Pasolini, gioca a calcio in strada (foto tratta dal web)

1946: il “Calcio” a Scanzano (in foto Pasolini, gioca a calcio in strada – foto tratta dal web)

A Scanzano nell’estate del 1946 si gioca una partita di calcio sulla cosiddetta “autostrada”, cioè l’attuale Viale delle Terme (dove allora passava un’automobile ogni “morte di Papa”). Giocano “‘e giuvane” (celibi) contro gli ” ‘nzurati” (ammogliati), arbitra “Pasquino ‘o barbiere”.
Ecco una brevissima sintesi di un’azione finita male:
“Rafele ‘e Mariuccia” passa al contrattacco, ma si scontra con la difesa avversaria rappresentata da “Gennaro ‘e Piscialluongo” e “Aitano Spogliamaronna”. Rafele (si gioca scalzi) urta con l’alluce contro il marciapiede e si infortuna. Subito accorre “Pascale ‘a Lacerta”, infermiere FF che, invece di medicare il malcapitato”ditone”, mette delle gocce negli occhi di “Rafele”. Alle sue immediate rimostranze, risponde: “Accussì viri addò miette ‘e piedi!”. Tutto il pubblico scoppia in una grossa risata.

Antonio Cimmino

la retata

La retata

La retata

la retata

la retata

Zio Catello e zì Vicenza non erano mai andati d’accordo, in circa ottant’anni di convivenza mai una parola affettuosa, mai un gesto amorevole. Il destino, come al solito dispettoso e bizzarro, li aveva legati l’una all’altro per la vita. Zio Catello, il più anziano dei fratelli di mia madre, pativa un vistoso abbassamento dell’udito, di converso zia Vincenza non vedeva quasi più; solo ombre colorate accompagnavano le sue giornate in casa.
Dopo la morte del nonno, si erano trasferiti in un palazzotto a via Santa Caterina angolo via Cognulo; una casa antica, come tutto il quartiere, un’enorme stanza faceva da camera soggiorno-letto, in fondo a sinistra un piccolissimo locale era la zona cucina; dal finestrino del bagno era possibile passare sui tetti vicini e trovarsi con poca agilità in via Cognulo. Chi si avventurasse oggi in quelle viuzze, potrebbe scorgere ancora un vecchio scaldabagno arrugginito attaccato ad una parete piastrellata.

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Zucazuca, una donna enorme e bella

di Ferdinando Fontanella

Nella rubrica delle “storie minime stabiesi di L.R.”, penso valga la pena ricordare, “Zucazuca”, una donna molto particolare (il motivo lo vedremo a breve) che abitava nella zona collinare di Castellammare di Stabia… un personaggio, molto conosciuto e noto, emerso tutto ad un tratto dai ricordi della mia infanzia. Buona lettura.

botero_famiglia

Famiglia colombiana (Fernando Botero,1999)

Zucazuca era un donna eccezionale. Alta quasi 2 metri e talmente grassa che qualcuno azzardava a scommettere che il suo peso superasse tranquillamente i 220 chili.

Però non era brutta, la massa di muscoli e grasso era ben distribuita lungo i 200 cm del suo corpo. Nessuna deformità insomma, solo una donna enorme e bella come un dipinto di Botero.

Era sempre stata spropositata… le sue dimensioni eccezionali, raccontavano le mamme sue coetanee, erano da imputare al fatto che Maria (questo il suo vero nome) aveva succhiato latte materno fino alla veneranda età di 8 anni. Questo allattamento prolungato gli era valso anche il curioso soprannome.

Maria all’età di 5 anni succhiava stando in piedi dal seno della madre che era seduta all’uscio di casa, i compagni di giochi la guardavano con curiosità, mentre i vicini di passaggio gli rimproveravano di essere troppo grande per quella faccenda da neonati, ma lei con calma si staccava dal capezzolo, afferrava la tetta grondante latte e porgendola con generosità ai curiosi diceva “Zuca zuca… che è buono!”. Inevitabile che il suo soprannome da allora e per il resto della vita diventasse Zucazuca. Continua a leggere

vecchiaia

A vicchiaia è ‘na brutta bestia!

A vicchiaia è ‘na brutta bestia!

articolo del prof. Luigi Casale

Vi sono delle storie che non hanno né tempo, né luogo. E forse nemmeno personaggi. Come i “paraustielli”. Tanto è vero che nemmeno si raccontano. Ma non è che non esistano. Sono solo sottintese, codificate, al punto tale che la saggezza popolare (saggezza economica) le richiama mediante una tacita convenzione tra parlante e ricevente (narratore e narratario) con la semplice espressione: “Comm´’a chillo” oppure “Comm´’a chillo r´’o cunto”; a volte, per indicare a chi si riferisca la morale sottintesa presente in tutte le storie (favole), aggiunge anche: “Tu, je fatto comma a chillo r´’o cunto…” o “Nuje facimmo…” o anche “Lloro facetteno…” e così via, per sottolineare un soggetto, un attore, la persona cioè che come primo termine della similitudine si è comportata come “quello del racconto”; chillo r´’o cunto, appunto.
A questo punto non si capisce bene se sia il comportamento della persona della realtà a generare la storiella (il paraustiello) o proprio ‘o paraustiello, in quanto preesistente, che fa da modello al comportamento delle persone. Non è che non si capisca per colpa nostra, per un nostro limite cognitivo, diciamo così; ma è semplicemente perché le cose sono in sé stesse incerte, proprio come la storia dell’uovo e della gallina. A proposito, chi è nato prima?
Ora la storiella, o piccola storia (perciò, storia minima), che voglio raccontarvi è reale, fa parte del vissuto; solo che il tempo e il luogo sono sfumati, e gli stessi personaggi, a parte il narrante (che sarei io: e se potessi mi sprofonderei anch’io nell’anonimato) sono tenuti nel vago.
Molti dei modi di dire, proverbi e stroppole, le ho apprese da mio padre e da mia madre; e – spesso – esse sono caratterizzate proprio dalla loro provenienza. In qualche modo tradivano la diversa filosofia di vita dei miei genitori. Ebbene, mio padre era solito ripetere “‘A vicchiaia è ‘na brutta bestia”.

vecchiaia

vecchiaia

All’epoca dei fatti ero giovane e fidanzato, e frequentavo, con rispetto e accettazione reciproca, la casa e la famiglia della mia futura sposa, dove tra i parenti c’era una zia signorina, come ce n’erano quasi in ogni famiglia. Per non tirarla per le lunghe soprassiedo sulla lode delle zie, signorine anziane o “antiche”, che erano la gioia e il tormento (ma soprattutto l’aiuto in tutti i sensi) delle famiglie che avevano la fortuna di averne una; oggi esse sono quasi tutte scomparse: a causa dell’avvenuta emancipazione sono state tutte promosse (o declassate?) a “signore ad honorem”. Continua a leggere