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Il “fuocaracchio” sull’arenile

articolo di Maurizio Cuomo

Nei giorni che precedono le festività natalizie la città di Castellammare di Stabia è scossa da un sussulto di notevole devozione, in tale periodo in ogni rione fremono i preparativi per onorare al meglio la solenne ricorrenza del Natale e ancor prima quella dell’Immacolata Concezione. A Castellammare la ricorrenza dell’otto dicembre è particolarmente sentita perché due eventi, tipici della tradizione popolare locale, ne delineano i pittoreschi contorni che si fondono tra folklore e religione: la voce di “Fratièlle e surélle” e i suggestivi “fuocaracchi”. Due pratiche antiche e suggestive, alle quali ancor oggi per fortuna è possibile assistere, che affondano saldamente le loro radici, nel credo religioso di alcuni stabiesi, che di esse ha fatto peculiarità fondamentale per il proprio cammino spirituale, in cui la devozione alla Madonna risulta essere la componente principale della vita. Il periodo culmina alla vigilia dell’Immacolata, quando per tradizione in ogni rione viene acceso un “fuocaracchio” (un grosso falò), intorno al quale si riuniscono i fedeli in attesa che alle prime ore dell’alba passi il cantore per annunciare l’ultima “voce” di “Fratièlle e surélle”. Le origini della tradizione del “fuocaracchio”, purtroppo sembra che non siano ben chiare, lo stabiese Ciro Alminni, per spiegare tali origini, nel libro “Antiche tradizioni stabiesi – Fratièlle e surélle” (anno 1999), riporta fedelmente così come dai suoi ricordi, una suggestiva storia raccontatagli dalla sua bisnonna Carolina (vissuta tra il 1800 e gli inizi del ‘900), in cui descrive il naufragio notturno di un peschereccio (paranziello) coinvolto in una violenta tempesta di mare e dell’unico superstite scampato alla tragedia, che in balia del mare, dopo ore di dura lotta tra le onde, mantenendosi a galla con un legno dell’imbarcazione, rimase miracolosamente illeso invocando la grazia della “Madonna”. Giunta ormai l’alba, e a mare acquietatosi, il pescatore, dolorante, stremato e infreddolito, raggiunse l’arenile stabiese adiacente alla cosiddetta “Banchina ‘e zì Catiello”, dove fu notato da alcune persone che si trovavano sul posto, che lo soccorsero accendendo un fuoco per riscaldare l’uomo. Il miracolato, riguadagnate un po’ delle sue forze, tra lo stupore degli astanti disse che era rimasto in vita perché salvato dell’Immacolata Concezione, che lo aveva accolto tra le sue braccia. Tale storia, se vera e non di fantasia, daterebbe quindi questa tradizione almeno alla fine ‘800. Volendo approfondire per verificare l’effettiva veridicità di questa tradizione prettamente stabiese, il nostro Gruppo di Ricerca, ha ben pensato di chiedere conferma a qualche stabiese ultraottantenne, che nel rilasciare intervista ha asserito che i fuochi dell’Immacolata ai loro tempi già esistevano, ma erano ben altra cosa, rispetto alla pericolosa pseudo-gara attuale, con la quale i rioni si contendono il primato nell’allestire il “fuocaracchio” più alto. Il fuoco a quei tempi era, invece, estremamente più raccolto e di modeste dimensioni, perché assolveva esclusivamente ad un compito prettamente propiziatorio. Nel raccogliere le testimonianze, si è anche constatato che i diversi racconti di vita vissuta concordavano per numerosi aspetti, tutti inerenti e riportanti alle modeste dimensioni dei falò. Il legname a quei tempi era un bene primario da non sprecare, perché usato in cucina (nei tempi in cui era in uso il focolare) e per il riscaldamento domestico, le modeste dimensioni dei falò erano quindi dovute al centellinare di questa preziosa risorsa, che nell’occasione era anche necessaria per riscaldare gli astanti in attesa dell’albeggiare. Un ulteriore conferma della preziosità del legname, è data dalla radicata usanza di allora, delle donne di famiglia di raccogliere a mattina inoltrata (al termine della funzione religiosa) la brace residua dei falò, quando ormai il fuoco aveva consumato le proprie energie, e la carbonella risultava utile a riempire il braciere di famiglia (‘a vrasera) per riscaldare gli umidi alloggi nella fredda giornata dell’Immacolata Concezione. Il folklore locale al servizio di un unico grande evento religioso, per dare anche ai giorni nostri una giusta continuazione ad una tradizione prettamente stabiese.

Galleria fotografica il fuocaracchio sull’arenile (anno 2010)

Quest’anno per questioni di incolumità pubblica l’Amministrazione locale, ha proibito tale pratica nei rioni e ha organizzato un falò controllato e sicuro sull’arenile, dando così alla cittadinanza una alternativa (salva tradizione) anch’essa suggestiva e di effetto. Tale iniziativa, però, seppur riuscita lascia un po’ di amaro in bocca, perché accentra l’attenzione in un’unica zona (con i relativi pro e contro del caso) e snaturalizza ciò che fino a ieri, era sempre stato di competenza rionale. A nostro avviso è giusta la messa in sicurezza, che approviamo senza batter ciglio, ma allo stesso tempo ritenendo che sia altrettanto giusto, proponiamo a chi ne ha la competenza, di studiare un modo per restituire ai rioni la legittima tradizione. Per attuare ciò in modo organizzato e civile (il tutto fatto in economia e senza troppi sforzi), l’Amministrazione comunale per le future ricorrenze, potrebbe fornire ai vari comitati parrocchiali, un braciere e della legna da ardere (ad esempio la legna proveniente dall’annuale potatura del verde pubblico cittadino, preventivamente accantonata e tagliata a misura, che così azzererebbe anche il passivo per l’eventuale smaltimento in discarica), una soluzione semplice, che se organizzata bene, potrebbe mettere tutti d’accordo e responsabilizzare la comunità stabiese, che accantonando i “lamponi degenerati” potrebbe riappropriarsi della vera tradizione del “fuocaracchio” e magari dare il via ad una vera e propria “notte bianca” cittadina.

Buona Immacolata a tutti.

Anniversario ( lettera del 07/05/2008 ):

Gli anni ’30 a Castellammare
( nei ricordi dello stabiese Gigi Nocera )

Caro Maurizio, esattamente un anno fa conobbi il tuo Libero Ricercatore. Ti scrissi e tu pubblicasti la mia lettera il 7 maggio del 2007 (rif.: “Libro Visite – Archivio 2007”). Data la mia età mi appellasti come il “nonno multimediale”. E subito mi proponesti di ricordare come si viveva a Castellammare negli anni “ 30” del secolo scorso. Di descrivere luoghi, fatti, persone e cose di quegli anni. Ben volentieri raccolsi il tuo invito. Per due motivi:

1° Perché rinnovare il ricordo di quei tempi era ed è come rivedere un vecchio film. Quando anche le scene meno belle vengono rivalutate e viste con occhi diversi.
2° Perché alle persone anziane piace raccontare il passato; molti illudendosi che delle loro esperienze se ne possano giovare i giovani. Ma non è così: le esperienze sono l’accumulo di fatti, di cose, di luoghi e persone, vissuti e conosciuti direttamente, e restano per sempre un bagaglio personale, un suo capitale, che in nessun modo è trasmissibile.
Rivedendo il film della mia vita, il ricordo di una grave malattia che mi colpì nel 1934, e che stava per portarmi all’altro mondo, non è così angosciante come dovrebbe essere. Eppure quella malattia, il tifo, in quella occasione fece parecchie vittime fra i bambini più o meno della mia stessa età.
Oggi non tutti sanno che allora la sanità pubblica non esisteva. Chi aveva le possibilità economiche (ed erano in pochi) poteva curarsi, chi ne era privo poteva anche morire per mancanza di cure. A volte il vivere o morire dipendeva dal censo e dal destino. Io mi salvai perché cosi volle il distino, al quale diedero una mano gli enormi e dolorose sacrifici dei miei cari genitori. Loro,poveretti, appartenevano alla categoria dei abbienti, e per curarmi adeguatamente furono quindi costretti a vendere tutto quello che si poteva vendere (anche i regali di nozze ricevuti in occasione del loro matrimonio), e impegnare al Monte di Pietà tutto ciò che era impegnabile (non so se poi il tutto fu riscattato; ma non credo). Al destino ed ai sacrifici di cui sopra si unì la solidarietà e la comprensione dei bottegai del rione (Geretiello ‘o casaiuolo, ‘o chianchiere, Mannara, Acampora il panettiere, e altri). Del medico Imparato che mi curò quasi gratis.
Queste tutt’altro che floride condizioni economiche oggi vengono da me ricordate non con l’affanno con cui allora erano vissute.
Il rammarico non mi assale se penso che io le scuole elementari e medie le ho frequentate senza mai comprare un libro. La mia famiglia non poteva permetterselo. Le nozioni che dovevo apprendere le dovevo assimilare ascoltando attentamente quello che dicevano in classe i maestri e i professori. Questo “allenamento” mi ha abituato ad ascoltare sempre con molto rispetto e attenzione quello che mi dicono le persone con le quali interloquisco. E questo lo ritengo anche un segno di rispetto.
Rivedendo il film di cui sopra, il lavarone, (che periodicamente invadeva le strade della città, e specialmente a Santa Caterina, quando dalla montagna acqua e terra precipitavano dal Chignulo ostruendo le strade e impedendo di andare agevolmente da Piazza Orologio all’Acqua della Madonna), oggi lo valuto con più freddezza, diciamo quasi con simpatia: era una anomale variante alla consueta routine della vita giornaliera. Per noi bambini sguazzare a piedi nudi in quel fango era uno dei tanti poveri e ingenui divertimenti.
Per le persone anziane (oggi non esistono vecchi, ma soltanto anziani!) invece, raccontare il passato è anche rimpiangere la semplicità, la genuinità dei rapporti umani che c’era fra la gente. Con grande nostalgia ricordo la solidarietà che esisteva fra i vicini di casa, fra la gente della via, del rione.
Nostra vicina di casa, per molti anni, è stata la famiglia Mauriello. Ebbene durante la mia malattia di cui ho parlato poc’anzi, mia mamma molte volte non aveva il tempo per preparare da mangiare, ma una delle sorelle Mauriello, Filumena, che era zitella, (come venivano chiamate allora le donne che non si sposavano) mai ci ha fatto mancare un piatto di pasta e fagioli, una pastasciutta, un frutto. Nel fare il bucato si sostituiva a mia madre , stanca per aver accudito giorno e notte a questo figlio quasi moribondo. E allora non esistevano detersivi e lavabiancheria I panni si lavavano a mano, con la forza delle braccia, in un mastello di legno, usando della cenere e del sapone grossolano.
Ma la solidarietà ci veniva data anche da molti abitanti della via. Chi andava a prendere i pani di ghiaccio perché,data la febbre alta, dovevo fare i bagni nell’acqua fredda; chi si alternava al mio capezzale perché dovevo essere assistito giorno e notte; chi andava a comperare le medicine. Insomma, come ho detto, c’era la solidarietà e l’aiuto diretto dei vicini di casa e di molti abitanti della via.
Ecco caro Maurizio quello che mi sentivo di comunicare ai giovani amici lettori di questo sito, nel compleanno della nostra conoscenza.
Nel concludere questi ricordi sono doverosi i miei ringraziamenti a te e agli amici stabiesi che ho avuto la gioia e il piacere di conoscere personalmente durante la mia breve visita a Castellammare nel mese di marzo.
Nei vostri occhi, sui vostri volti ho rivisto quei nobili e bei sentimenti di cui mi sono nutrito durante la mia fanciullezza a contatto con la gente dell’Acqua da Madonna, da Caperrina, ‘e via Santa Caterina.

Grazie ancora. Gigi Nocera