Un giorno incontrai Raffaele Viviani
di Corrado Di Martino
Era una di quelle mattine di metà mese, ed ero già in strada a giocare. La sera precedente aveva piovuto che Dio la mandava. Ero fermo, in quella mattina di primo autunno, a rimirare il riflesso del mio vicolo (Vico Salvati [n.d.a.]) in una pozzanghera d’acqua piovana, smosso dai sassolini che ad arte vi lanciavo dentro; quando tuonò il preavviso di una vicinissima tempesta più perniciosa di quella da poche ore passata: “Carmeli’ ‘o porto ije a scola, mo’ vedimmo si nun ‘nce va!” A quel tempo mio padre lavorava fuori, in Sicilia, e quindi come nelle migliori tradizioni era lo zio uterino ad accollarsi le fatiche dell’educazione del figlio della sorella (figlio al singolare, non perché questi fosse figlio unico, ma perché era l’unico che abbisognava di un attento “educatore” personale).
Zio Catello, era il maggiore dei fratelli di mia madre, celibe per scelta (non vi racconto di quando, parlando del ventennio e del fatto che chi non contraeva matrimonio era sotto-posto a una particolare pressione fiscale, lui e il nonno si scambiavano ancora feroci invettive), tubista alla Navalmeccanica, ex attore di avanspettacolo, a lui si devono tutti i miei incontri con i comici più popolari al tempo in città da Enzo Santomauro a Ciccio Vascuotto ed altri ancora. Era alto, aveva mani robuste, occhi verdi e profondi e su di essi un’ombra triste, come di chi non ha avuto tutto quel che meritava dalla vita. Credeva profondamente in me, anche se ancora piccolo e selvatico, e faceva di tutto per dare le stesse sicurezze anche a me medesimo.
“Jamme bbelle, ja’! Già aiere nun he juto a scola, e che facimme n’ato tubbista?”
In una di quelle mattine di metà ottobre che tradiscono l’autunno, talmente dolci e temperate sono, quando tutto: il paesaggio, i colori delle piante, gli odori, il mare… il mare!!, ti invitano a fare altro: zio Catello mi accompagnava a scuola. L’acceso dibattito su quanto fosse dura la vita dello studente, consumava i cubetti di porfido che ci dividevano dal “Seminario” (era la vecchia denominazione della scuola elementare istituita all’interno dell’Osservatorio Meteorologico di piazza Municipio). Io mi dimenavo e strillavo, e lui giù scuzzuttune, carocchie e chianette. Mentre lo scontro impari (impari: poiché in grinta e aggressività sovrastavo il malcapitato parente) proseguiva, incontrammo un suo amico: “Rafe’ – gli disse mio zio – nun vo’ ji’ a scola, contace ‘o fatte, ‘e quanne guaglione he capito pecché ‘nce s’ha dda ji!” Raffaele era un uomo sulla trentina, alto quanto lui, castano, con baffi da gentiluomo inglese (quello coi baffi nella foto che segue, se qualcuno ne conosce le generalità mi farebbe piacere conoscerle).
Austero, simpaticamente severo, mi chiese: “Lo sai chi sono io??”
Ed io un paio di strattoni a zio Catello, per prenderlo di sorpresa, ma sapendo con chi aveva a che fare, il mastino non abbassava la guardia.
L’uomo continuò: “Sono Raffaele Viviani” ed iniziò a declamare dei versi affascinanti, musicali, ipnotici: “…a dudece anne, a tridece, tanta piezz’‘e stucchiune ca niente maje capévamo pecché sempe guagliune!. […]ma, a dudece anne, a tridece, cu ‘a famma e cu ‘o ccapi’, dicette: nun po’ essere: ‘sta vita ha da ferni’. Pigliaje ‘nu sillabario: Rafele mio, fa’ tu! E me mettette a correre cu’ A, E, I, O, U.”
I due si salutarono, ed io frastornato più che placato, con lo zio mi infilai nell’immenso androne del Seminario.
Zio Catello, da tempo non c’è più, il suo amico Raffaele, di cui non ho mai conosciuto il vero nome, l’ho incontrato spesso, durante tutto l’arco della mia vita… è venuto a vedermi a teatro… avrei potuto fermarlo, parlargli, chiedergli… non sarebbe stata la stessa cosa, non più un incontro magico, non più Raffaele Viviani. Quante persone, credete, oggi, possano dire come me di aver incontrato Rafaele Viviani?
La sera precedente aveva piovuto che Dio la mandava, una pozzanghera solitaria rifletteva tutto il mio vicolo.