La tammorra e le erbe aromatiche
di Libera Coppola
Introduzione e brevi note sull’autrice
Mi chiamo Libera Coppola sono nata a Castellammare nel 1955 nel vico delle Mammane in via I de Turris (proprio a fianco al grande vico S. Catello), dopo aver vissuto lì l’infanzia e anche parte dell’adolescenza, mi sono trasferita con la famiglia in viale Europa precisamente zona (Summuzzariello), poi ventenne, sono andata a vivere a Sorrento dove attualmente vivo. Non ho mai dimenticato di essere stabiese e grazie a Dio ho buoni motivi per venirci spesso e viverne con piacere i miglioramenti.
Oggi, nel tempo libero scrivo di Castellammare e questo mi diverte molto, a volte scrivo e rido ripensando al passato e a certi personaggi, venditori di cose che non esistono più, come “il pane con la zuffritta di zia Carulina” con cui a volte facevamo colazione la mattina, “Carulina” che era anche una cognata di mia nonna, posizionava il suo carrettino davanti alla porta della sua bottega proprio tra il vico S. Catello e il vico delle Mammane, in 15 mq aveva un supermercato con la differenza che cambiava spesso merce a seconda degli affari che trovava quando si recava a Napoli e ovviamente a seconda delle stagioni. Ritornando al racconto che vi ho spedito è la vera storia di una mia prozia: Teresa Esposito di Gennaro, nata intorno al 1903 da giovane aveva “‘o puosto” di frutta e verdura al mercatino di S. Vincenzo poi lo cedette per darsi alla riffa, lavoro certamente più redditizio e movimentato. La storia è scritta di mio pugno è fa parte di una raccolta di altri scritti sulla vita che si svolgeva a Castellammare negli anni cinquanta / sessanta (alcuni dei quali sono ancora da terminare).
Questo è un regalo che voglio lasciare alle mie figlie che nonostante siano nate sorrentine, frequentano Castellammare assiduamente e “per forza di cosa”, sono anche figlie del progresso.
La tammorra e le erbe aromatiche
La salita che portava al bosco di Quisisana, per noi bambini che eravamo quasi sempre scalzi, era particolarmente lunga e ripida. Camminare in montagna con gli zoccoli era faticoso perciò li portavamo infilati alle mani come guanti. Seguivamo affannati il passo svelto di mia zia, anzi della mia prozia: la giunonica Teresa che amava, in queste scorrazzate montane, camminare cantando e suonando appassionatamente la tammorra. Erano due le occasioni in cui, grazie a lei, ci riunivamo con tutti i cugini: il lunedì di Pasqua e fine agosto prima che i grandi temporali “spezzassero” i tempi e l’estate volgesse al termine, per la raccolta delle erbe aromatiche. Mia zia portava sotto il braccio, con una certa grazia, un grande cesto che lei chiamava panaro pieno di merende fatte di pane con pomodori e origano, pigne d’uva, pere e qualche noce fresca, poi appena le veniva la frenesia di cantare e di tammurrià’, passava a noi il paniere pesante come il piombo, che noi portavamo a turno in due, reggendolo con tutte e due le mani, qualche volta l’abbiamo trascinato per terra e lo abbiamo danneggiato gravemente. Intorno alla “Fontana del re” consumavamo la nostra colazione, desiderata per tutta la mattinata, e poi lì c’era l’acqua fresca, per bere e per giocare dopo aver mangiato. Si giocava pure a nascondino ad acchiapparello o al salto con la fune, a mosca cieca, a color color. Poi, quando la zia si rimetteva in sesto, dopo un riposino sull’erba secca, si svuotava il paniere dalle ultime cibarie che eravamo costretti a mangiare, anche se ormai ben sazi, e lo si ripuliva dalle briciole, perché è li che dovevamo deporre le erbe odorose della nostra ricerca. Mia zia era un’intenditrice di erbe e d‘inverno con i suoi decotti a base di eucalipto menta e agrumi freschi ci curava dal raffreddore. Gli impacchi di camomilla servivano per le slogature e per il bruciore agli occhi. I semi di finocchietto erano per il mal di pancia, ma l’uso più frequente delle erbe aromatiche oramai secche che raccoglievamo d’estate, era per il bagnetto serale dei neonati, un rituale a cui tutti noi assistevamo; alcune volte anche noi bambini preparavamo le varie erbe: la menta selvatica, il finocchietto, la melissa, la camomilla, i fiori di tiglio, le foglie e i frutti dell’eucalipto, le foglie di limone e la lavanda, tutto in infusione nell’acqua bollente nel grande catino di ferro smaltato. Col gomito la mamma testava la temperatura dell’acqua e quando era al giusto grado si ripuliva dalle erbe che avevano sprigionato tutti i loro poteri emollienti, disinfettanti, calmanti ed espettoranti e ci s’immergeva il bambino che immediatamente col suo sorriso ci dimostrava quanto fosse felice. Raccoglievamo le erbe sullo stradone che da Quisisana porta al paesino di Pimonte, col fiuto di cacciatori di erbe, rovistavamo dietro ogni cespuglio e annusavamo tutte le erbe e poi cercavamo conferma da mia zia, se quella era l’erba giusta. Si andava avanti così per tutto il pomeriggio fin quando il cesto non fosse pieno e fin quando non si arrivava alla casa di un pastore, di cui non ricordo più il nome, con le sue pecore e il cane Cicciotto che alla nostra vista cominciava a scodinzolare e a girare su se stesso. Il pastore era un vecchio amico di tammorra di mia zia, ci regalava le foglie di limone e non disdegnava mai una suonata a quattro mani e una bella canzone con lei. Così mentre loro cantavano e suonavano, noi ballavamo. L’erba secca ci scricchiolava sotto i piedi sprigionando tutto l’odore del bosco, il cuore rideva seguendo il ritmo dei battiti delle nostre mani che andavano sulle note di un’antica “taranta”.