Un giornalista d’altri tempi: Ugo Cafiero
Primi appunti per una biografia del grande giornalista e antifascista stabiese
articolo di Raffaele Scala
Premessa
Per capire chi sia stato Ugo Cafiero basterebbe citare un solo episodio, quello raccontato da Matteo Cosenza nel suo bel libro, Il compagno Saul, edito da Rubettino nel 2013, dove l’autore racconta una storia che il padre ricordava spesso e che vede protagonista proprio il nostro personaggio. Ricordiamolo anche noi:
Di fronte alla sua abitazione (della famiglia di Saul Cosenza) di Piazza San Matteo, c’era e c’è, Villa Cafiero, una delle tante dimore estive che napoletani facoltosi, spesso nobili, avevano costruito nei decenni trascorsi nella zona collinare di Quisisana, sulla scia dei Borbone che avevano edificato nell’omonimo bosco alle falde del Faito, un loro Palazzo Reale. Chi non poteva entrare a Villa Cafiero ne raccontava faville e qualcuno del posto che andava lì a prestare la propria attività (cuochi, domestiche, giardinieri), alimentava discretamente queste favolose narrazioni. Una, però, non era fantasiosa e riguardava una data storica: la dichiarazione di entrata in guerra dell’Italia. La sera del 10 giugno 1940 un gruppo di antifascisti napoletani raccolti nella villa dei Cafiero brindò con champagne la fine del fascismo dopo il discorso di Mussolini a Piazza Venezia. [1]
Lo stesso piccolo Saul, ogni qualvolta Cafiero tornava da Napoli, dove insegnava, correva alla stazione ferroviaria, insieme ad un altro ragazzo, suo coetaneo, Catello Scala, per portargli borse e valigia e accompagnarlo alla sua villa. In compenso il già anziano antico giornalista, riservava loro pillole di saggezza, di cultura, piccoli consigli di sano vivere civile per non perdersi e diventare buoni cittadini.[2]
Uomo di vasta cultura, la cui esistenza fu segnata da non poche disavventure e da alcune tragedie, Cafiero si portava appresso anche un bagaglio di esperienze non comuni, arricchita da amicizie importanti, che avevano influito non poco sulla sua vita, uomini potenti che avevano scritto la storia della letteratura e della politica italiana, tra cui Presidenti di Consiglio e Ministri del regno, basti pensare a Gabriele D’Annunzio, Matilde Serao e Edoardo Scarfoglio, così come era amico di personalità del calibro di Giovanni Giolitti, Giovanni Amendola, Francesco Saverio Nitti, fino a Enrico De Nicola, futuro primo Presidente della Repubblica.
Il matrimonio e l’amicizia con D’Annunzio
Ma chi è costui?
Ugo Cafiero nasce a Castellammare di Stabia il 5 luglio 1866, in via Calata Gesù, nelle case del fu Cioffi, figlio di Errico, impiegato di marina e di Maria Teresa Parisi (1829 – 1866), morta prematuramente, a soli 37 anni, il 4 ottobre 1866, tre mesi dopo la nascita del nostro protagonista. Era il quinto e ultimo figlio, nato dopo Attilio, Olimpia, Gaetano e Girolmina, quest’ultima scomparsa a soli 11 mesi il 17 febbraio 1865. Fin da giovane si rivelò essere uno scapestrato, facile all’avventura e dal carattere focoso, fortunatamente bilanciato da sicuro ingegno. Purtroppo la facilità con la quale si lasciava prendere dall’ira gli procurò, nel corso della vita, non pochi problemi e guai. Non accettando le sue umili condizioni sociali, combatté e vinse riuscendo a conseguire il diploma magistrale e successivamente a laurearsi in giurisprudenza. Si era nel frattempo fidanzato con Giuseppa, detta Giuseppina, Denza (1864 – 1946), di due anni più anziana, figlia del pittore Ciro (1844 – 1915) e nipote del musicista, Luigi Denza (1846 – 1922), autore della celeberrima, Funiculì, funiculà, il cui testo fu scritto nel 1880 dal giornalista Giuseppe Turco. Non meno importante fu Ciro Denza, che ci ha lasciato bellissimi dipinti della marina stabiese e straordinari paesaggi della Castellammare di fine Ottocento. Quello di Ugo Cafiero fu un amore contrastato per la ferma opposizione della famiglia di lei, che riteneva il giovane un elemento poco affidabile proprio per le sue intemperanze caratteriali e non adeguato ad una ragazza che già frequentava i più importanti salotti letterari di Napoli e di Roma, accompagnata dal padre e dall’illustre zio, i baroni Denza.[3] Fra le tante amicizie curate dalla giovane vi era quella del già famoso, ma non ancora celebrato, Gabriele D’Annunzio, autore di alcune raccolte di poesie e del suo primo romanzo, Il Piacere, scritto e pubblicato nel 1889. Un’amicizia che ben presto si estenderà al più giovane e innamorato Cafiero, rivelandosi decisiva per il suo futuro. Per quanto contrastato un amore difficilmente lo si può impedire, e così alla fine i genitori di lei si arresero acconsentendo al matrimonio, celebrandolo il 18 dicembre 1889 nell’antica e monumentale chiesa di San Matteo, risalente al XVI secolo, una delle dodici chiese – una per ogni apostolo – volute da Roberto D’Angiò (1278 – 1343) a seguito della sua guarigione. La bella e antica chiesa si trovava, tra l’altro, a pochi passi dalla casa paterna della giovane Giuseppina. Il matrimonio avvenne alla presenza dell’assessore delegato Michele Astuni (1828 – 1898), e tra i testimoni delle nozze ci fu suo cognato, Luigi Molinari (1851 – 1918), marito della sorella maggiore Olimpia Cafiero (1857 – 1928), maestra elementare. Al matrimonio partecipò il fior fiore della cultura e dell’arte. Naturalmente non poteva mancare il celebre zio Luigi, tornato appositamente da Londra. Racconta un aneddoto che al momento di scambiarsi gli anelli, i testimoni si resero conto di aver dimenticato le fedi nunziali. In loro soccorso venne, allora, uno dei presenti, Vincenzo Cannavale, tesoriere del comune di Castellammare, che lesto si sfilò la sua prestandola ai due giovani smemorati. [4] Tra settembre 1891 e dicembre 1893, venne a vivere a Napoli, Gabriele D’Annunzio, costretto a fuggire da Roma per i troppi debiti accumulati, facendosi assumere come redattore de, Il Mattino, quotidiano fondato nel marzo 1892 dai coniugi, Matilde Serao ed Edoardo Scarfoglio. La presenza di D’Annunzio nell’ex capitale del Mezzogiorno rafforza e consolida un affinità già esistente con la giovane Giuseppina Denza, un amicizia stretta e profonda nata, come si è già scritto, dalle stesse frequentazioni dei vari salotti letterari. Il rapporto nato in precedenza s’irrobustisce e si fortifica nel periodo napoletano grazie alla estrema disponibilità dello stesso Cafiero che si mise letteralmente al servizio del Sommo Poeta, aiutandolo a liberarsi di non poche incombenze. Un amicizia che D’Annunzio ricambiò con altrettanta generosità, come dimostra il carteggio esistente tra i due. E a testimonianza di quanto lo stimasse arrivò una volta a definirlo, nel linguaggio immaginifico che gli era proprio, il suo Talamòne[5]. In un’altra lettera, inviata il 21 maggio 1893 all’amica carissima, Giuseppina Denza, da lui ritenuta sua sorella spirituale, definì il marito l’inviato del Cielo.
Scriveva D’Annunzio a Giuseppina:
Gentile amica, noi dobbiamo chiedervi scusa dell’avervi tolto così spesso e per così lungo tempo il vostro Ugo (…). Egli è stato per noi veramente l’inviato del cielo: – non avrebbe potuto mostrare una abnegazione più calda e una più delicata sollecitudine. Certo senza di lui io mi sarei disperato. Egli sa e indovina la nostra riconoscenza; ma voi forse non sapete, lontana, che il nostro pensiero viene spesso verso di voi con riconoscenza non minore. Grazie dunque cara amica. Anche voi oggi avete qualche angustia. Perché dunque i figli debbono costare tante lagrime e tante ansietà? La mia vita non è mai stata così intensa come in questi giorni. L turbamento talvolta è così forte che provo uno strano bisogno di dire cose incomprensibili. A rivederci. Sicura in noi se non la letizia, almeno la pace. Vi stringo le mani. Ave. Il vostro devotissimo Gabriele D’Annunzio.[6]
Il rapporto dello scrittore abruzzese con Cafiero arrivò al punto da firmare il suo saggio intitolato, Gabriele D’Annunzio e la sua opera, con il nome dell’amico stabiese sulla rivista letteraria, La Tavola Rotonda, nel numero pubblicato il 17 dicembre 1893. Nell’articolo, replicava piccato ai suoi detrattori che avevano bocciato il suo ultimo romanzo, L’innocente, libro rifiutato dall’editore Treves perché ritenuto altamente immorale e di basso rilievo letterario. Il romanzo fu poi pubblicato dall’editore napoletano, Ferdinando Bideri nel 1892.[7]
Grande poeta, esaltatore della parola, il D’Annunzio invase del suo ardore l’amico stabiese, conquistandolo agli ideali emanati dall’ incredibile fascino di cui era dotato, stimolando non poco la sua vena poetica, al punto da indurlo a cimentarsi, da dilettante, nella difficile, cosiddetta, Quinta Arte[8]. Tra le sue carte sono state trovate diverse poesie rimaste inedite, fino a quando Padre Anselmo Paribello non ne ha pubblicate alcune nel suo farraginoso romanzo storico, Fuoco sotto la cenere, nell’ormai lontano 1979. Non possedendo la competenza necessaria, non entriamo nel merito dei suoi versi, rinviando al libro del francescano quanti intendono eventualmente approfondire l’argomento. Prima di comporre poesie il giovanissimo Cafiero aveva esordito scrivendo un piccolo saggio di venti pagine, oggi depositato presso la Biblioteca Nazionale di Napoli: Sullo insegnamento delle lingue classiche secondo il concetto moderno della pedagogia scientifica.[9] In realtà non abbiamo certezza che sia lui e non un omonimo l’autore dello studio, anche se i dubbi sono pochi. Strano destino quello del Cafiero autore. Come abbiamo già avuto modo di capire, dubbi e incertezze permangono anche per quanto riguarda il saggio attribuito a D’Annunzio, quello pubblicato nel 1893 sulla rivista napoletana, edita da Bideri, La Tavola Rotonda. Cafiero aveva avuto l’ardire di sposarsi senza avere un impiego sicuro, e senza avere molto denaro in tasca. A venirgli incontro fu la stima nel frattempo consolidatosi con lo scrittore di Pescara, il quale non esitò a darsi da fare, muovendo mare e monti fra le sue pur importanti, altolocate amicizie, dai Ministri della Pubblica Istruzione, il liberale di destra, Paolo Boselli (1838 – 1932) e Ferdinando Martini (1841 – 1928), vecchio liberale di sinistra, passando per l’amico repubblicano, Giovanni Bovio (1837 – 1903), e a quanti altri per fargli avere una cattedra che gli consentisse di sposarsi con la sua amatissima Giuseppina. Sembrò riuscirci ma un equivoco impedì che una prima operazione andasse in porto, e così D’Annunzio scrisse ad Ugo nel 1888:
(…) Non tralasciando nulla per affrettare il giorno in cui mi sia dato togliere a me il rammarico e a te i fastidi che ti nascondi con la tua solita mirabile generosità d’amico (…).[10]
Gli riuscì infine di trovargli una prima cattedra nelle classi superiori di un ginnasio di Caserta dove potrà insegnare, seppure soltanto per un anno scolastico, quello relativo al 1888/89. L’anno Successivo, sempre grazie al suo amico romanziere, trovò posto in una scuola di Torre del Greco, dove la novella coppia si trasferì, andando ad abitare, al Corso Vittorio Emanuele n. 8. In questa strada nacquero due dei suoi tre figli, Ugo e Maria. Infine D’Annunzio riuscì a proporlo come successore del futuro senatore, Michele Scherillo, (1860 – 1930) presso il prestigioso liceo, Vittorio Emanuele, nel capoluogo campano, il primo liceo napoletano, fondato con regio decreto nel 1861. Nella lettera di raccomandazione scritta il 21 settembre 1893 a un non meglio precisato professore, D’Annunzio non esiterà a presentarlo come un suo fratello:
Egli è uno tra i più valenti giovani laureati di larga cultura grecista e latinista non comune, egli ha già esercitato con efficacia il suo ufficio d’insegnante, Guido Biagi ne sa qualcosa e anche Ferdinando Martini, al quale nel giugno scorso lo raccomandai senza ottenere, per un semplice contrattempo, quello che io chiedevo in favore dell’amico. Ho ragione di credere che il Ministro sia ben disposto verso di lui e che presentandosi l’occasione non voglia negare a me un favore già chiestogli con tanta premura. E’ vacante al liceo Vittorio Emanuele a Napoli il posto d’insegnante alle classi aggiunte per l’Italiano. Non conosco tra i giovani di qui chi possa più degnamente del Cafiero succedere a Michele Scherillo (…). E mi perdoni l’insistenza Ugo Cafiero è legato a me da vincoli d’amicizia antichi e fortissimi. E io rispondo per lui di tutto, sicuramente.[11]
Ebbero tre figli, Ugo (1892 – 1919), Viva (1893 -1961) e Maria (1895 – 1978). Ugo erediterà del padre il carattere impulsivo e lo spirito avventuroso, infatti, il giovane rampollo, già spavaldo ufficiale di cavalleria, si trasferirà ben presto a Parigi, lavorando come pubblicista e frequentando gli squattrinati ambienti bohème, arrivando ad essere amico del pittore Amedeo Modigliani (1884 – 1920), non disdegnando l’uso di droghe, che probabilmente lo portarono il 24 dicembre 1919 a perire in un tragico incidente, intorno alle dieci del mattino, travolto da un tram. Aveva solo 27 anni quando provò ad attraversare, alla guida del suo cavallo, che ben sapeva destreggiare, il varco fra due tram che si stavano incrociando. Una sfida folle lanciata quel giorno da alcuni amici che erano con lui, i quali scherzando, avevano messo in discussione la sua bravura di cavallerizzo. Una sfida che gli costò la vita sul boulevard des Capucines.
Raccolto morente, veniva trasportato all’ospedale della Carità, dove cessava di vivere. [12] scrisse l’anonimo cronista del Mattino riportando la notizia della disgrazia.
Per quanto scapestrato e facilmente irritabile al futuro giornalista non mancarono i consensi popolari se, seguendo l’esempio del suocero, a sua volta ex consigliere comunale, riuscì eletto nelle elezioni amministrative parziali del 22 giugno 1895, non ancora trentenne, mettendosi subito in mostra con una corposa mozione di ben 18 pagine sull’annosa problematica dell’acqua potabile, letta in aula il 25 luglio successivo e rieletto il 21 novembre 1897, guadagnandosi ben 497 preferenze.[13] Ma per quando uno possa contenersi non è possibile nascondere il carattere irruente che si possiede e questo esplose nella seduta consiliare del 4 maggio 1898, tenutasi all’indomani dei moti popolari che videro protagonista anche Castellammare di Stabia con denunce e arresti dei socialisti locali, tra i quali Catello Langella, Vincenzo De Rosa, Nicola Scognamiglio, Luigi Fusco e Salvatore Formicola, tutti poi condannati e incarcerati. Nel corso del dibattito consiliare Cafiero attaccò violentemente il sindaco, Paolo Avitabile, venendo quasi alle mani, fino a provocare il suo arresto e subire l’onta del carcere per qualche giorno.
Riportiamo la vicenda attraverso il resoconto giornalistico di un cronista dell’epoca e ricostruito da Raffaele Scala nel suo volume sulla storia del primo socialismo stabiese:
Ci fu o no la manifestazione di ragazzi e popolane, avesse ragione o meno il corrispondente del giornale di Scarfoglio a minimizzare i fatti, al contrario di quanto invece narrato dal corrispondente del Roma, Nicola Ciardiello, nella versione da noi raccontata integrandola con gli atti processuali del tribunale militare, gli incidenti ebbero in ogni modo una coda due giorni dopo, quando ci fu una tempestosa seduta serale del consiglio comunale convocato per discutere alcuni provvedimenti straordinari da prendere “per alleviare le tristissime condizioni pel rincaro del pane. [14] Niente lasciava presupporre quello che poi sarebbe accaduto. Il consigliere Antonio Vanacore propose di far abolire i dazi sui generi di prima necessità come grano, farina e pasta e questa passò all’unanimità con la nomina di una commissione chiamata “ad escogitare nuove tasse a carico delle classi più agiate per controbilanciare gli introiti mancanti dalle proposte abolizioni dei dazii. L’aula consiliare cominciò a surriscaldarsi quando si passò agli altri punti all’ordine del giorno tra i quali il nuovo prestito, l’appalto dei dazii e l’operato del sindaco su questi stessi argomenti. Ad un certo punto la seduta fu interrotta dalle invettive del consigliere Ugo Cafiero contro il sindaco Paolo Avitabile, il quale non riuscendo a calmarlo gli si avvicinò venendo quasi alle mani. Il pronto intervento del delegato capo, Vincenzo Ruglioni, e di alcuni agenti impedì la rissa con l’arresto immediato del Cafiero, costretto così a trascorrere qualche giorno in cella, con l’accusa di aver arrecato offese all’Autorità nell’esercizio delle sue funzioni.
Il giovane Cafiero trascorrerà in carcere un paio di giorni per rispondere di offese arrecate all’Autorità nell’esercizio delle sue funzioni.[15] Un mese dopo, innanzi alla 12° sezione del Tribunale di Napoli, Cafiero, difeso dall’avvocato Lucio Sorrentino e dall’On. Gaspare Colosimo (1859 – 1944), senatore democratico liberale, ma ex repubblicano, fu assolto perché il fatto addebitatogli non costituiva reato. [16] La querela del sindaco al futuro giornalista del Mattino costò alle casse comunali ben 3.600 lire di onorario da pagare all’illustre professor Enrico Pessina (1828 – 1916), geniale giurista napoletano, patriota e più volte parlamentare.[17]
La rottura con il sindaco, riguardante i chiarimenti richiesti e non ottenuti, su alcuni provvedimenti riguardanti la concessione dei dazi di consumo, rientrò senza procurargli ulteriori problemi nel suo lavoro politico, non a caso lo ritroviamo qualche mese dopo assessore titolare alle Finanze e Igiene, guidata da Tommaso Cuomo, subentrato al dimissionario Avitabile nel dicembre 1898. In tale veste interviene nel corso della commemorazione tenutasi nel Teatro Moliterno a ricordo dei tenenti Cesare Putti e Nicola de Sanctis, entrambi caduti nella furiosa e, per noi tragica, battaglia di Adua ad Abba Carima, in Etiopia nel marzo 1896, entrambi decorati alla memoria nel marzo 1898.[18]
Qualche anno prima il giovane Cafiero era già balzato agli onori della cronaca giornalistica, quando il 22 settembre 1894, su, Il Mattino, appare un articoletto firmato da kerecardia, pseudonimo del corrispondente stabiese del quotidiano di cui non siamo riusciti a scoprire la vera identità, in cui viene pubblicamente lodato. Leggiamo:
Con la data del 15 ottobre cominceranno i corsi del nostro Regio Ginnasio. Questa istituzione si deve ad un nostro egregio concittadino, il dottor Ugo Cafiero, giovane che meritatamente vanta un attitudine speciale in tal genere. Egli, aiutato dalle autorità cittadine, ha promosso pure l’apertura di una scuola tecnica industriale che sarà di grande utilità per i figli degli operai di questo Regio Cantiere.[19]
L’avventura romana tra fortune e disgrazie
Grazie alle amicizie romane di D’Annunzio Ugo Cafiero era dunque riuscito ad insegnare nel prestigioso liceo Vittorio Emanuele, ma era stanco di girovagare fra le varie scuole della provincia, voleva cambiare, darsi al giornalismo. Forse ancora una volta grazie a D’Annunzio, ma di questo suo probabile intervento non abbiamo documentazione, riuscì a farsi assumere dal quotidiano, Il Mattino. L’unica condizione posta fu quella di trasferirsi a Roma, presso la sede capitolina del quotidiano. Naturalmente Cafiero accettò senza condizioni e partì all’inizio del nuovo secolo, trovando un appartamento in via Savoia 44, raggiungendo così il suo celeberrimo e prezioso amico.
A Roma Cafiero diventò prima redattore, poi corrispondente parlamentare dello stesso giornale, infine amministratore. In breve tempo divenne popolarissimo ed addentratissimo negli ambienti politici. A tal proposito, rievocando la sua storia, all’indomani della morte e ricordando la sua amicizia con i potenti del tempo tra cui Giovanni Giolitti (1842 – 1928), Francesco Saverio Nitti (1868 – 1953) e Vittorio Emanuele Orlando (1860 – 1952), l’anonimo redattore del Mattino, continuò, scrivendo:
Si ricorda fra l’altro che egli fu il primo a segnalare l’ingresso di Enrico de Nicola nella vita politica ed individuare nel giovanissimo parlamentare napoletano una delle future personalità più spiccate della politica nazionale.[20]
In questo primo periodo romano Cafiero si cimenta con un inchiesta sul campo, indagando su un traffico di minorenni italiani, ragazzi condotti dai circondari di Sora (Lazio) e di Isernia (Molise) nelle vetrerie francesi, raccogliendo documenti e testimonianze della tratta, dell’arrivo, della permanenza e spesso del mancato ritorno dei piccoli italiani obbligati a lavorare in stato di semi schiavitù in questi opifici d’oltralpe.[21] L’inchiesta, patrocinata dall’Opera di assistenza degli operai italiani emigrati in Europa e nel Levante, fece talmente scalpore da varcare le soglie del parlamento ed essere citata nell’intervento del deputato giolittiano, Benedetto Cirmeni durante la seduta del 13 giugno 1901:
(…) E questo compito fu affidato al dottor Ugo Cafiero, un cittadino di Castellammare di Stabia, il quale recatosi sul luogo ha disimpegnato il suo compito pietoso in modo veramente ammirevole (…).[22]
Suo è anche il saggio di etica professionale, appena 48 pagine, su, La morale nel commercio, pubblicato nel 1907 dall’Unione Cooperativa Editrice. Ma l’impiego presso il quotidiano napoletano non è tutto rosa e fiori e ben presto nascono i primi problemi, uno in particolare sarà talmente grave da mettere in pericolo la sua stessa vita. Per il suo carattere aggressivo, il giorno di San Silvestro del 1908 schiaffeggiava nella Sala dei Giornalisti un telefonista del giornale, tale Filippo Ungaro. Costui licenziato dal Mattino, aveva chiesto il pagamento di un ultimo stipendio che non gli toccava, in quanto gli era stato già spedito in una fede di credito girata con la formula, a saldo. Di fronte al diniego del Cafiero costui si mise a gridare provocando la sua reazione, forse spropositata. Sfidato a duello Cafiero rifiutò non volendogli dare questa soddisfazione, non ritenendolo degno di battersi con lui, ma ai due padrini che vennero ad informarlo riferì che era disponibile ad affrontare chiunque lo avesse fatto in suo nome. L’incontro tra le parti, rappresentate dai quattro padrini, due per parte, si concluse positivamente addivenendo ad un accordo di sospensione momentanea in attesa di chiarimenti. Nel frattempo la notizia giunse sui giornali, su abili informazioni fornite dall’Ungaro e pubblicate, tra l’altro, dal quotidiano socialista, l’Avanti! costringendo lo stesso Cafiero a scrivere, a sua volta, il 26 agosto 1909, rivendicando la sua verità dei fatti. L’invio all’organo socialista era motivato dal fatto che da anni ormai Cafiero aveva abbracciato la fede socialista, pur non militandovi attivamente. Il nostro Ugo non si era tirato indietro, ma aveva semplicemente chiesto una sospensione in attesa che un Giurì giudicasse se l’Ungaro fosse degno o meno di battersi a seguito di quanto era accaduto. Intanto lo scandalo era scoppiato e la versione prevalente fu quello di un Cafiero vigliacco, una nomea che nonostante tutto gli resterà appiccicata addosso, come avremo modo di vedere successivamente. In suo soccorso, ancora una volta, venne D’Annunzio, scrivendo di suo pugno alla Presidenza dell’Associazione della stampa periodica italiana, proponendo una soluzione della vertenza, provando in questo modo a spegnere l’incendio, ma non ci fu nulla da fare e alla fine il duello ci fu. Era il 1 settembre 1909.
I due sfidanti s’incontrarono alle sei del mattino, a un chilometro dalla via Laurentina, accompagnati dai rispettivi padrini. Spararono due colpi a testa, senza conseguenza alcuna, con pistole da duello caricate sul posto da un armaiolo scelto di comune accordo. Entrambi si considerarono alla fine soddisfatti ed ogni malinteso fu dimenticato.
Ma non ci fu molto tempo per gioire dello scampato pericolo. Quasi un anno dopo gli arrivò tra capo e collo una nuova tegola sulla testa: in un articolo da lui pubblicato su Il Mattino, il 21 agosto 1910 – nell’ambito della scandalo sul Caso Calabretta che occupò le pagine nazionali per oltre due mesi – contenente apprezzamenti poco lusinghieri nei confronti di un altro quotidiano, Il Giornale, ricevette una lettera da parte del redattore capo di quel giornale, Raffaele Maria Vulcano, offendendolo pesantemente sul piano personale, scrivendo e sottolineando la nomea di vigliacco che gli si era appiccicata addosso negli ambienti romani:
Ho letto sul Mattino di ieri una vostra corrispondenza nella quale è contenuta una volgare ingiuria a questo giornale di cui sono Redattore capo e che attualmente, nell’assenza del Direttore, rappresento.
Non sono uso a tollerare ingiurie da chicchessia e già vi avrei inflitto la sola punizione degna di voi: uno sputo sul laido viso, se non foste quel celebre vigliacco da tutti conosciuto sempre testo alle fughe più ignominiose.[23]
L’affronto fu tale da finire davanti alla decima sezione del Tribunale penale di Roma e si concluse, inaspettatamente, con la condanna di Ugo Cafiero al pagamento delle spese processuali.
Le sue corrispondenze da Roma relative al Caso Calabretta – dal nome del Colonello del Genio navale, Antonino Calabretta, sotto direttore del Regio Cantiere di Castellammare coinvolto nello scandalo delle forniture – nato a seguito di una lettera anonima inviata al deputato locale Alfonso Fusco (1853 – 1916) e a sua volta resa pubblica, gli inimicarono la corrente socialista che si riconosceva nella linea del giornale sindacalista, La Propaganda, attaccandolo pubblicamente. Girava voce che la lettera anonima fosse stata sollecitata dallo stesso Fusco per vendicarsi del Colonnello, reo di non essersi piegato ai voleri del deputato, teso a favorire gli interessi di alcuni amici. Il Mattino si era schierato apertamente col Fusco, vero e proprio ras del collegio stabiese. Già l’Avanti! il 6 agosto 1910 aveva pubblicato un articolo in cui accusava l’onorevole Fusco di aver creato il Caso Calabretta, chiedendo una rapida inchiesta per fare luce su quanto era realmente accaduto.[24]
Ricostruendo la vicenda scriveva, La Propaganda:
In Calabretta si è voluto punire chi per una o altra ragione aveva opposto reciso rifiuto a richiesta di favori. Il disonorevole per Castellammare – il deputato Fusco – aveva invano implorato concessioni pei suoi amici ed elettori anche invano aveva chiesto protezioni elettorali. Le denunzie anonime dunque nascondevano un fine di vendetta. Questo ha detto il Calabretta, ed il deputato Fusco ha taciuto ed il giornalista Cafiero ha taciuto (…).[25]
Calabretta aveva pagato in un primo momento con un mese di carcere, arrestato e tradotto a Castel dell’Ovo il 30 luglio, nel fuoco dello scandalo scoppiato in giugno, ma assolto il successivo 27 agosto[26] e trasferito a Venezia presso il III Dipartimento Marittimo, con la promozione a Direttore. Lo scandalo era ormai sfuggito al controllo di quanti avevano manipolato la vicenda varcando la soglia del Parlamento con varie interpellanze, fino a costringere lo stesso Alfonso Fusco a intervenire a difesa del suo onore perduto.[27]
A pagare il prezzo fu naturalmente il povero Cafiero, scaricato come unico colpevole dalla Proprietà del Mattino. Il giornalista stabiese protestò, litigò, s’infuriò, chiedendo giustizia al Direttore sentendosi esautorato dalle sue funzioni. L’animoso giornalista non era uomo da usare il tatto, la prudenza non gli era mai appartenuta, e quando si rese conto di essere andato oltre, dando per ripicca le proprie dimissioni dall’incarico, cercò inutilmente di porvi rimedio, ma Scarfoglio non volle sentire ragioni, ormai aveva già deciso e lo licenziò su due piedi, dopo dieci anni di servizi resi, talvolta piegandosi alle ragioni e alla linea non sempre limpida del giornale, anzi spesso al servizio della reazione e di interessi di parte. L’egregio e pur stimato corrispondente romano fu sostituito, senza batter ciglio, dal figlio di Edoardo, Paolo Scarfoglio, che aveva consumato il suo apprendistato fra Torino, Vienna e Berlino.[28]
Rientrato a Castellammare, deluso e amareggiato, si diede all’insegnamento privato, ma con i guai era ormai abbonato e ben presto si ritrovò con il suo unico figlio maschio, Ugo, impegolato in una vicenda che poteva avere tragiche conseguenze. La sera del 30 settembre 1911, mentre il giovane Ugo si trovava nella sala delle Terme Stabiane provocò un incidente con tale Carlo Rossi Bussola, finito in rissa. Per l’irrequieto giovane la vicenda non poteva chiudersi in questo modo, così, affidandosi a due suoi amici, Fedele Migliore e Ignazio Ricolo, sfidò a duello il malcapitato, che però non si tirò indietro. Il successivo due ottobre incontrandosi nella Sala del Caffè Mosca – l’attuale Bar Di Nocera – i rispettivi padrini arrivarono, fortunatamente, ad un chiarimento concludendo e sottoscrivendo che il tutto era stato provocato da uno spiacevole equivoco e la vicenda si chiuse con le scuse di Carlo Rossi Bussola e una stretta di mano.
La storia di Villa Cafiero
Non lontano dall’antica chiesa di San Matteo, a Quisisana, nei pressi di Villa Mauro vi era un fondaco boschivo liberato dalla condizione di feudalità nel 1759 da Re Ferdinando IV. Adatto a costruirvi una panoramica villa gentilizia, la famiglia De Sangro, nobile e potente famiglia napoletana, di origini abruzzese e prima ancora francese, se ne innamorò, l’acquistò e vi costruì una magnifica villa. L’ultimo ad abitarla fu Placido De Sangro (1866 – 1911), Conte dei Marsi, che la eredita dallo zio Nicola, ultimo Duca di Martina, morto il 28 dicembre 1891. Placido non doveva essere un uomo felice, perseguitato com’era dai fantasmi dei suoi avi, alcuni dei quali si erano tolto la vita, fino a quando, a sua volta, non decise di seguirne le orme. Si suicidò il 15 settembre 1911 lanciandosi dal balcone del terzo piano della sua villa, schiantandosi sul selciato sottostante, non lasciando eredi né disposizioni testamentarie. Aveva 45 anni. Ma di questa sua morte non rimase contento e si trasformò in fantasma affacciandosi spesso dal terrazzo del terzo piano, camminando in maniera disinvolta sui tetti, aprendo le imposte dei balconi e delle finestre, sorridendo, piangendo, restando immobile. Di tutto questo non poteva dirsi felice l’affranta vedova, Maria Spinelli, Contessa de Marsi, anzi spaventatissima, lasciò la casa rifugiandosi in quella più accogliente del capoluogo campano, mettendo in vendita l’immobile. Per nove mesi la villa rimase vuota e abbandonata, fino a quando ad acquistarla per 65mila lire il 28 giugno 1912, furono i fratelli, Carlo e Angelina Drowin, nativi di Verona ma da tempo residenti a Napoli, in via Mezzocannone. Con altre 15mila lire si appropriarono anche dei beni mobili. Lo fecero su fiducia, senza neanche aver mai messo piedi per un sopralluogo nella bella e fastosa proprietà. Carlo e Angelina credettero di aver fatto il grande affare comprando a sacco chiuso, ma non tardarono molto a rendersi conto, a capire di aver commesso il più grave errore della loro vita.
Appena presero possesso della villa furono subito avvertiti dell’ingombrante coinquilino che li avrebbe tenuto compagnia, ma ancor più se ne accorsero cogliendone la presenza e se ne scapparono senza voltarsi indietro.
Villa de Sangro rimase disabitata per altri sette anni, fino a quando il sanguigno Ugo Cafiero non si decise a fare il grande passo. Ne discusse con la moglie e con le due figlie, Viva e Maria, da subito entusiaste, anche perché l’intento del padre era di intestarla a loro due, ma Giuseppina tentennava, anzi era decisamente spaventata. Lei sapeva della maledizione che pesava sulla casa, ne conosceva la storia tragica, ma soprattutto sapeva che il fantasma ancora l’abitava. A convincerla non fu sufficiente sapere che la villa confinasse con la proprietà familiare, quella dei suoi amati genitori, Ciro Denza e Annunziata Bezzi. Tra l’altro l’appartamento comprato con tanti sacrifici da suo padre aveva in comune con la villa de Sangro la scala d’accesso. Anche Cafiero sapeva dell’ingombrante ospite, ma non per questo era spaventato, anzi, la prese come una sfida, o, più semplicemente, come una irripetibile occasione da cogliere. E per piegare la volontà contraria della spaventata moglie, si confidò allora con il suo grande amico, D’Annunzio, chiedendone l’aiuto, ben sapendo quale ascendente avesse su Giuseppina. L’autore di Terra vergine si disse subito felice della scelta e con ciò convinse definitivamente anche la titubante amica, facendola capitolare.
La villa venne acquistata per 100mila lire l’11 ottobre 1919 con atto depositato a Napoli, presso il notaio Vincenzo Vitiello.[29]
L’ultima ad abitarla fu Maria Cafiero, che vi morì nel 1978, a 83 anni in estrema povertà, ormai semiparalitica e ridotta su una sedia a rotelle, assistita alla meno peggio da una badante e da alcune donne che le tenevano compagnia e in ultimo da frati francescani del vicino convento. Approfittando del suo stato, la villa subì numerosi furti, in particolare scomparirono di notte, uno dopo l’altro, gran parte dei quadri di valore di vari autori presenti nelle varie sale.
Con testamento pubblico aveva donato l’intera proprietà ai Figli di San Francesco con l’intento che fosse adibita ad accogliere i Frati Minori vecchi ed infermi, oppure usata per opere sociali e caritative sotto la loro piena responsabilità. In realtà non molto tempo dopo Villa Cafiero fu rivenduta al costruttore Raffaele Celotto che la trasformò in diversi appartamenti e venduti.[30]
L’avventura tripolina
Non era uomo da restare fermo il nostro Cafiero, né di accontentarsi di vivere di lezioni private, così, forse sollecitato dallo stesso D’Annunzio, suo benefico angelo custode, fece ritorno a Roma, fondò una sua agenzia giornalistica di informazioni assumendo il ruolo di Direttore e di giornalista parlamentare, ruolo nel quale meglio si riconosceva e si identificava per le sue molte, altolocate amicizie. Non a caso, se ne servirono largamente le personalità più spiccate della politica nazionale.[31] Ciononostante la piccola azienda giornalistica non ebbe, sfortunatamente per lui, una lunga durata e fu ben presto costretto a chiudere.[32]
Che altro poteva inventarsi lo sfortunato giornalista stabiese per uscire dalla maledizione che lo perseguitava se non quello di cavalcare l’onda dell’entusiasmo per la vittoriosa avventura libica, esaltato dal suo amico D’Annunzio e dalla sua retorica patriottica? Così senza perdersi in inutili recriminazioni, partì per la capitale della nuova Libia voluta da Mussolini fondandovi la Società Nuove Arti Grafiche, di cui fu amministratore e il giornale, Tripoli Italiana. Ma ancora una volta la fortuna non gli arrise. L’ennesima sventura iniziò quando decise di licenziare un certo Serio, da lui ritenuto, per motivi che non conosciamo, un vigliacco ed una spia. Il dipendente, un ex giornalista del Giornale d’Italia, reagì attaccandolo sulla stampa, ai quali Cafiero reagì a sua volta, con altri articoli che non potevano non portargli altri guai. E questi vennero puntuali e precisi con la denuncia di questo Serio al Tribunale di Tripoli per ingiuria, diffamazione e calunnia. Per rincarare la dose arrivò ad accusarlo di seguire una politica antitaliana per loschi interessi personali, in combutta con deputati socialisti, provocando la condanna del giornalista stabiese, sentenza che arrivò implacabile il 19 gennaio 1923. Inutilmente Cafiero si rivolse alla Corte d’Appello, su di lui rimase l’ombra di aver tradito il proprio Paese con lo spionaggio. La sua casa a Tripoli e la stessa tipografia furono incendiate e distrutte e quindi ancora una volta uscì sconfitto e senza prospettiva alcuna.
Nella Città Eterna le figlie, rimaste nubili, si erano industriate, trovando a loro volta un’occupazione e lo fecero esercitando il mestiere di modiste. Questa professione sembra sia nata in virtù di una particolare dote da parte di Maria di trasformare un qualsiasi, banale pezzo di stoffa in un sapiente capo d’abbigliamento. Sempre a proposito di questa ragazza si racconta che avesse lavorato per diversi anni a Parigi quale governante della figlia di Nitti, ridotto all’esilio per sfuggire alle rappresaglie fasciste.[33] Lo stesso Cafiero, stando ad un rapporto della polizia politica del 18 febbraio 1928, che lo sorvegliava attentamente per le sue pubbliche posizioni antifasciste, con la chiusura del giornale e il danno economico subito, rimasto privo di occupazione, si ritrovò a vivere modestamente, al punto da essere costretto a ricorrere ad alcuni parenti di Viva e Maria, presumibilmente un qualche ramo dei Denza traslocato nella città capitolina.[34]
Cafiero rientrerà a Castellammare, per motivi di salute, verso la fine del 1930. Più probabilmente ritornò nella sua città perché ormai aveva capito di essere entrato nel mirino della polizia politica del regime fascista che cominciò a controllarlo per la sua sempre più aperta ostilità al duce. Stando agli stessi rapporti redatti dalla prefettura, fece vita ritirata e riservata nella sua villa, dove aveva aperto uno studio legale ed insegnava privatamente Lettere e Filosofia. Nel febbraio del 1933 si trasferì a Napoli andando a vivere in via Tasso 202, trovando occupazione come insegnante presso l’Istituto Pontano al Corso Vittorio Emanuele, Largo Cariati. Anche questa sua nuova esperienza non durò molto, trovandosi licenziato alla fine dell’anno scolastico con la motivazione di scarsa autorità sugli alunni.[35] Non accettando supinamente un licenziamento che riteneva illegittimo, e probabilmente causato dalla sua ormai nota posizione antifascista, Cafiero intentò causa all’istituto ecclesiastico, arrivando a scrivere al Duce per avere giustizia. Che non ebbe. Ancora una volta fu, quindi, costretto a riprendere l’insegnamento privato dando lezioni di Italiano, Latino e Greco. Periodicamente si recava a Roma dove continuava a vivere una delle sue figlie. Non durò molto il suo stato di precario, andando ben presto ad insegnare presso il Regio Liceo Giuseppe Colasanzio e presso l’Istituto Amato con sede in via Carlo Poerio. Non trovandolo sufficiente per le sue esigenze economiche, impartì anche lezioni private nella propria abitazione.
Da una nota della Prefettura di Napoli apprendiamo che
Trovasi in buone condizioni economiche, gode buona stima nell’ambiente professionale, conduce vita ritirata, non si occupa di politica né consta esplicita attività contraria alle istituzioni del Regime. Non figura iscritto al PNF ma è iscritto al Sindacato Interprovinciale Fascista Insegnanti.[36]
Da una nota della Regia Prefettura di Napoli apprendiamo che nel settembre del 1942 risiedeva ancora a Napoli in via Oronzio Costa, 37.[37]
Profondamente antifascista, fu amico intimo di Francesco Saverio Nitti (1868 – 1953) e di Giovanni Amendola (1882 – 1926), fino ad aderire, nell’autunno del 1924, al suo movimento, l’Unione Meridionale e poi a Italia Libera, anzi a Castellammare fu uno dei fondatori del locale circolo che si aprì con il contributo di altri noti personaggi avversi alle scelte del nascente regime, armai avviato a trasformarsi in aperta dittatura. Tra i quaranta che aderirono al circolo stabiese di Italia Libera ricordiamo il proprietario dell’Hotel Stabia, Achille Gaeta (1892 – 1957), già noto socialista e il dottor Carlo Vitelli, che ritroveremo nel 1944 primo sindaco della città, su nomina del Comitato di Liberazione Nazionale, poi sostituito da Raffaele Perna, a seguito delle sue repentine dimissioni. Il circolo ebbe vita breve a seguito del colpo di stato mussoliniano del gennaio 1925, con il quale il duce ordinò la chiusura immediata di tutti i circoli, associazioni e organizzazioni di opposizione, tra questi i 122 circoli di Italia Libera. Non casualmente il Duce riteneva tale associazione la più pericolosa tra quelle presenti nel nostro Paese.[38]
Amico fraterno di Enrico De Nicola (1877 – 1959), avvocato e uomo politico, si racconta che un giorno, intorno al 1940, vedendolo in lontananza a Torre del Greco, città natale del futuro primo Presidente della Repubblica, lo chiamasse a gran voce e, avvicinandosi, cominciasse a parlar male del fascismo suscitando nell’altro notevole imbarazzo, se non aperta preoccupazione. De Nicola, vecchio liberale, di stampo conservatore, era deputato fin dal 1909, ricoprendo notevoli incarichi istituzionali e di governo anche sotto il primo fascismo. Pur non aderendo al PNF, non voleva compromettersi più di tanto, del resto in quegli anni bastava poco per ritrovarsi condannato al confino politico, se non addirittura arrestato e incarcerato per uno o più anni, come era accaduto allo stesso Achille Gaeta. Carcere e confino politico conosciuto anche da un altro amico di Cafiero, l’avvocato socialista, Giacomo Costa, arrestato il 16 giugno 1936 per avere espresso giudizi negativi sulla condizione economica dell’Italia e sulla guerra italo etiopica.[39] Così alle affermazioni perentorie e provocatorie di Cafiero, De Nicola, notoriamente di carattere mite, rispondeva provando a trattare altri argomenti non compromettenti, ma soprattutto non pericolosi, tirando un sospiro di sollievo quando riuscì nel suo intento.[40]
Nell’aprile del 1945, su espressa richiesta di Achille Gaeta, suo grande estimatore ed amico, Cafiero ospitò, sotto il falso nome di signor Macchini, il Generale Renzo Montagna (1894 – 1978), accompagnato da una donna e una ragazza. Il generale, fascista della prima ora, aveva intrapreso una brillante carriera sotto il regime e per questo fatto arrestare da Badoglio nell’agosto del 1943. Liberato l’8 settembre dai paracadutisti tedeschi aveva aderito alla Repubblica Sociale Italiana e per volere di Mussolini nel 1944 fu nominato giudice nel processo di Verona contro i membri del Gran Consiglio che avevano votato l’ordine del giorno Grandi, portando al defenestramento del duce il 25 luglio 1943. Processo, ricordiamolo, che portò alla fucilazione, tra gli altri, dello stesso genero di Mussolini, Galeazzo Ciano (1903 – 1944), marito della adorata figlia Edda. Su consiglio del suo amico, l’ex giornalista socialista, Carlo Silvestri (1893 – 1955), antifascista – ma allo stesso tempo amico intimo dello stesso Mussolini – il generale si era in un primo momento rifugiato a Napoli e da qui a Castellammare, come villeggiante nella villa, come si è detto, di Ugo Cafiero, tollerato dagli antifascisti locali e salvandosi da morte certa. A Castellammare il generale trovò anche il tempo di sposarsi con Carla Ardigò, la donna che l’aveva accompagnato sotto falso nome.[41]
Cessato il pericolo il generale volle rendere nota la sua vera identità e ringraziare chi lo aveva tanto generosamente ospitato. Amnistiato dalla Corte d’Assise di Como, il 29 maggio 1947, si ritirò a vita privata a Voghera, in provincia di Pavia, dove morì nel 1978.
Uno degli ultimi articoli scritti da Cafiero fu pubblicato il 31 luglio 1950 su, Il Semaforo, periodico non meglio identificato, in cui l’autore descrive la storia degli scoli fognari sulla spiaggia della città.[42]
Ugo Cafiero muore a 85 anni, il 25 marzo 1951 e sepolto nella tomba di famiglia del vecchio cimitero, posta alle spalle della chiesa, ma di cui pare non ci siano più tracce.[43] Sua moglie Giuseppina era morta il 13 gennaio 1946. Toccherà poi a Viva scomparire l’11 gennaio 1961 dopo una lunghissima depressione che la portò a rinchiudersi in sé stessa, aveva soltanto 68 anni. In ultimo toccherà a Maria, a 83 anni.
In suo onore, il 10 aprile 1965 con Delibera di Consiglio, l’amministrazione comunale di Castellammare gli dedicherà una strada, la traversa su Corso Giuseppe Garibaldi, retrostante il fabbricato della Cooperativa della Stampa.[44] Via Ugo Cafiero. Una strada e nulla più!
[1] Matteo Cosenza: Il compagno Saul, Rubettino Editore, 2013, pag.43-44
Figlio di Matteo, operaio del Regio Cantiere, militante socialista, poi comunista, che prese parte alla difesa di Palazzo Farnese dall’assalto fascista del 20 gennaio 1921, Saulle Cosenza era nato a Castellammare di Stabia il 15 luglio 1925. Iscrittosi al PCI nel 1943, partecipa alla manifestazione contro la guerra del 1° settembre, subendo l’arresto con altri noti antifascisti. Citato da Paolo Spriano nella sua, Storia del PCI: tra gli operai dei cantieri di Castellammare, l’organizzazione del partito è attiva, e si fa luce in essa, Saul Cosenza. – pag. 165 edizione l’Unità Einaudi, 1990. Operaio dei Cantieri navali dal 1939, fu Segretario della sezione Fontana negli anni ’50 e successivamente della sezione Romagnoli, cellula interna alla Fincantieri. Consigliere comunale nel 1961, fu Segretario cittadino del Partito dal 1967 al 1977 e membro del Comitato Centrale dal 1969 al 1979. Saul fu il primo stabiese a meritare questo privilegio, successivamente vi entreranno Salvatore Vozza ed Ersilia Salvato. Responsabile di Zona del Partito dal 1977 al 1980, Saul morirà il 12 gennaio 1981 e la camera ardente sarà allestita nell’ampio salone della sezione, al Corso Vittorio Emanuele, salutato dall’affetto di miglia di militanti. A tenere l’orazione funebre ai suoi funerali, in una Piazza Spartaco gremita di gente, fu Giorgio Napolitano, il futuro Presidente della Repubblica
[2] Testimonianza dell’avvocato Enzo Cannavale, all’Autore in tre incontri avvenuti tra gennaio e marzo 2018 presso il bar Fontana.
L’avvocato Cannavale (classe 1934) fu vicino di casa del grande giornalista, e suo primo insegnante di latino, nelle lezioni di doposcuola che ricevette fin dalla prima metà degli anni ’40, come testimonia un biglietto autografo dello stesso Cafiero scritto nel 1944 e dedicato a Enzo Cannavale con l’augurio che studi con amore queste poesie immortali per compiere brillantemente ginnasio e liceo e diventare, perché lo può, uno dei più distinti professionisti.
[3] Cfr. Antonio Ziino: Ciro Denza e il suo tempo. L’opera artistica e sociale in Libero ricercatore, febbraio 2017
[4] Testimonianza dell’avvocato Cannavale all’Autore
[5] Talamòne è la statua d’uomo che nelle parti esterne di un edificio funge da colonna o pilastro. Cfr. Il nuovo Zingarelli minore, 14° edizione, edizione Zanichelli, 2008, ad vocem
[6] Cfr. Padre Anselmo Paribello: Fuoco sotto la cenere: Villa Ugo Cafiero già de Sangro, tipografia Pelosi, 1979, pag. 120/122. In L’Opinione di Stabia n. 39, giugno 2000 è possibile leggere un estratto della stessa lettera cfr.: Angelo Acampora: Le amicizie stabiesi di D’Annunzio.
Sul carteggio epistolare di Gabriele D’Annunzio con Ugo Cafiero e la mogli e Giuseppina, cfr. Anselmo Paribello: Fuoco sotto la cenere, cit. Nel libro sono riprodotte 17 lettere scritte da D’Annunzio a Cafiero e alcune poesie dello stesso Cafiero
[7] Cfr. La Tavola Rotonda, Giornale letterario illustrato della domenica, del 17 dicembre 1893: Gabriele D’Annunzio e la sua opera, di Ugo Cafiero, in realtà scritto da Gabriele D’Annunzio, seppure permangano ancora dubbi sull’autenticità di chi sia, tra i due, il vero autore.
[8] Le sette Arti sono, nell’ordine: 1.Architettura, 2.Musica, 3.Pittura, 4.Scultura, 5.Poesia, 6.Danza e 7.Cinema.
[9] Ugo Cafiero: Sullo insegnamento delle lingue classiche: secondo il concetto moderno della pedagogia scientifica, presso L. Pierro, 1887.
[10] Cfr. Padre Anselmo Paribello, cit., pag.126/27
[11] Cfr. Padre Anselmo Paribello, cis, pag.131/134
[12] Cfr. Il Mattino del 27/28 dicembre 1919: Gravissimo lutto di Ugo Cafiero
[13] Le liste che si contesero la guida dell’amministrazione comunale furono tre: la prima era guidata da Paolo Avitabile e sostenuta dal Viceammiraglio, Giuseppe Palumbo (1840 – 1913), la seconda dal medico, Carlo Salvadore, a sua volta vicino al Viceammiraglio e la terza, infine, era composta da candidati che rispondevano ai due massimi esponenti della politica locale, Alfonso Fusco (1853 – 1916) e Tommaso Sorrentino (1830 – 1900), da sempre acerrimi rivali nelle competizioni politiche per la conquista del seggio parlamentare. Avitabile vinse con estrema facilità conquistando i 32 seggi che spettavano alla maggioranza, mentre gli otto della minoranza andarono al duo, Fusco – Sorrentino. Avitabile subentrò all’uscente Catello Fusco (1839 – 1904, celebre medico chirurgo, ex deputato e zio di Alfonso.
[14] Per i particolari della vicenda cfr. Raffaele Scala: Catello Langella (1871 – 1947), alle origini del socialismo e della Camera del Lavoro di Castellammare di Stabia, nella raccolta di AA.VV Miscellanea edita dal comune di Castellammare di Stabia nel 2002. Il resoconto giornalistico è estratto dal quotidiano, Roma, del 5 maggio 1898: Seduta tumultuosa al Municipio. Un consigliere arrestato di Nicola Ciardiello,
[15] Roma, cit.
[16] Sui particolari del processo cfr. Don Chisciotte di Roma del 5 giugno 1898, in Anselmo Paribello, cit. pag. 140/142
[17] ASC, Sentenza incidente consigliere Cafiero – Avitabile – Corrispondenza col prof. Pessina. Suo onorario. Busta 346, inc. 4, f. 2
[18] Il Mattino del 26-27 settembre 1899: Una degna cerimonia, di Kerecardia
[19] Il Mattino del 21-22 settembre 1894: Per l’istruzione, di Kerecardia
[20] Il Mattino del 27 marzo 1951: La morte di Ugo Cafiero, articolo non firmato.
De Nicola fu eletto deputato per la prima volta nel 1909 nel collegio di Afragola, confermato nel 1913 e nelle elezioni del 1919, ricoprendo vari e prestigiosi incarichi istituzionali, tra cui Presidente della Camera dei deputati.
[21] La Riforma Sociale, rivista diretta da Francesco Saverio Nitti e Luigi Roux: Cfr. il numero di giugno 1901: I fanciulli italiani nelle vetrerie francesi, di Ugo Cafiero pag. 569-591
[22] Cfr. Atti parlamentari, tornata di giovedì 13 giugno 1901, intervento di Cirmeni, pag. 5103/5106
[23] Anselmo Paribello: cit., pag. 143
[24] Cfr. l’Avanti del 6 agosto 1910: L’affare del cantiere di Castellammare di Stabia.
[25] Cfr. La Propaganda, giornale sindacalista: Ancora di Calabretta, n.887 del 10/11 settembre 1910. Vedi anche n. 883 del 13/14 agosto: Giustizia militare e il n. 886: Calabretteide, in cui si attacca pesantemente Ugo Cafiero e il Mattino, n. 895 del 5/6 novembre: Il caso Calabretta ed il pericolo che corrono gli interpellanti – L’on. Fusco guerriero?
[26] Cfr. l’Avanti! Del 28 agosto, l’art. Il caso Calabretta. L’assoluzione del Colonello
[27] Cfr. Atti parlamentari, Camera dei Deputati, intervento in aula di Alfonso Fusco, 8 giugno 1911
[28] Anselmo Paribello, cit. pag.146,147
[29] Anselmo Paribello, cit., pag. 103/123
[30] Testimonianza dell’avvocato Enzo Cannavale all’Autore
[31] Il Mattino del 27 marzo 1951: La morte di Ugo Cafiero, articolo non firmato.
[32] ACS, CPC, Cafiero Ugo, nota del 10 marzo 1928 della Divisione Polizia Politica
[33] Del rapporto tra Cafiero e Nitti sono rimaste tre lettere scritte nel 1922 dal giornalista stabiese al grande statista. Cfr. Annali della Fondazione Luigi Einaudi (A cura di Stefania Martinetti Dorigo), 1974, vol. VIII
[34] ACS, CPC, Ugo Cafiero, busta 929, Questura di Roma, nota della polizia politica n.500/2220 del 18 febbraio 1928
[35] ACS, CPC, Ugo Cafiero, busta 929, Questura di Napoli a Ministero dell’Interno, Napoli 25 gennaio 1934
[36] Ibidem, Regia Prefettura di Napoli a Ministero dell’Interno, 4 giugno 1940
[37] Ibidem, Da Prefetto di Napoli a Ministero dell’Interno DD.GG., nota del 8 settembre 1942
[38] Oltre ad Achille Gaeta, Ugo Cafiero e Carlo Vitelli, tra i maggiori esponenti del circolo stabiese di Italia Libera troviamo il dottor Catello Esposito, Raffaele Russo, Luigi Donnarumma, Giovanni Di Maio, Michele Rossano. Stando al rapporto del Commissario, tutti erano capeggiati dal commendatore Ugo Cafiero. Cfr. ACS, CPC Achille Gaeta, Regio Commissario di Castellammare di Stabia, Dossier riservato, 1928
Nello stesso dossier stilato dal famigerato Antonio Vignale, acerrimo nemico del Gaeta leggiamo un’altra interessante nota riguardante il nostro Cafiero: Quando i fascisti cominciarono a tenere d’occhio l’Hotel Stabia, ove i convegni (degli antifascisti, NdA) avvenivano nel bureau dell’Albergo, tali convegni avvenivano in altre località, verso Quisisana, in casa di un loro amico della stessa fede (vuolsi Commendator Cafiero).
[39] Cfr. Rosa Spadafora: Il popolo al confino, la persecuzione fascista in Campania, vol. I, pag. 149/151. Nel fascicolo su Giacomo Costa sono segnalati i rapporti d’amicizia con l’antifascista Ugo Cafiero.
[40] Testimonianza dell’avvocato Enzo Cannavale all’Autore
[41] Cfr. Renzo Montagna: Le fucilazioni del processo di Verona, Pietro Macchione Editore
[42] Cfr. Angelo Acampora-Giuseppe D’Angelo: Le fonti bibliografiche per la storia di Castellammare di Stabia, Nicola Longobardi Editore, 1993, pag. 46 dove si cita l’articolo pubblicato sul n. 15 del 31 luglio 1950 dal Semaforo, pubblicato a Napoli nello stabilimento M & V. Masula e intitolato: Un incredibile situazione antigienica.
[43] Il Mattino del 27 marzo 1951: La morte di Ugo Cafiero, articolo non firmato
[44] Cfr., Giuseppe D’Angelo: Le strade di Castellammare di Stabia, Longobardi Editore, 2000, pag.
Come posso contattarla in privato per alcuni chiarimenti?