( nei ricordi del dott. Raffaele Scala )
Premessa d’autore:
Caro Maurizio, in allegato ti invio un ricordo lontano della Castellammare che fu, un piccolo racconto autobiografico che spero incuriosisca i lettori e li inviti, a loro volta, a ricostruire il mosaico di quella strada, di quel quartiere, della Castellammare degli anni Sessanta.
Come sempre con amicizia, il tuo, e vostro Raffaele Scala.
Doveva essere il 1960 quando andammo ad abitare in via Cassiodoro, una piccola traversa cieca di via Cosenza, in un appartamento al pian terreno, con cortile chiuso da un cancelletto. La traversa era costeggiata dai muri perimetrali del grande deposito di legnami Domenico Rosa Rosa, la cui area confinava con via Cicerone, il neonato quartiere popolare, allora ancora in via di completamento. All’inizio degli anni sessanta entrarono in funzione anche i primi padiglioni della moderna scuola elementare che pose fine alla sconcio del vecchio, precario edificio situato all’altezza di Ponte San Marco.
All’inizio degli anni Cinquanta in realtà il quartiere San Marco ancora non esisteva, solo poche case, il campo sportivo e per il resto soltanto aperta campagna, giardini ed agrumeti profumati. I pochi abitanti, infatti, per andare a messa si recavano nella chiesa Maria Santissima del Rosario, più comunemente conosciuta come chiesa della Starza, in via Cosenza. Non a caso nel censimento del 1951 non è segnalato neanche come frazione rurale, ma le poche abitazioni confuse nel termine generico di case sparse. Il primo agglomerato urbano fu realizzato con i fondi dell’UNRRA CASAS nel 1952-53, veri e propri villini, ciascuno composto da quattro appartamenti, a loro modo graziosi, a favore dei senza tetto e dei meno abbienti, nell’area poco avanti lo stadio, al Ponte San Marco. In seguito furono costruite le palazzine dell’INA CASA di fronte a Villa Gabola e la chiesa, intorno al 1959, retta fin dalla sua fondazione da don Ciro Donnarumma. (1928 – 2003), ai confini con Gragnano, dove bisognava recarsi in classe con l’ombrello.
La famiglia Rosa Rosa era originaria di Scanzano ed erano imprenditori fin dalla fine dell’Ottocento, quando iniziarono la loro attività con un piccolo deposito di legnami sul porto, arrivando poi ad occupare oltre cinquanta dipendenti all’inizio del nuovo secolo con la famosa Segheria a vapore Domenico Rosa Rosa, dal nome del suo fondatore (1853 – 1918). Si ne conteranno più di cento nei decenni successivi, fino a quando non si trasferirà a Napoli sul finire degli anni Sessanta. L’azienda cesserà definitivamente la sua attività nel 1986, travolta dalla crisi che colpì il settore del legno all’indomani del terremoto del 23 novembre 1980. Oggi al posto del vecchio stabilimento vi è un moderno parco residenziale
Mio padre lavorava in quell’azienda dall’inizio del 1955 e vi resterà fino a quando non andrà in pensione anticipata, nel 1986, a seguito della gravissima crisi aziendale che metterà in ginocchio l’intero settore del legno.
Ad angolo di via Cassiodoro, dove ora vi è la farmacia, vi era una piccola fabbrica, con abitazione, a conduzione familiare, per la produzione di dischetti metallici per farne tappi di bottiglia. Uno dei figli del proprietario, Salvatore, un bambino della mia stessa età, ne prendeva spesso a centinaia e li distribuiva tra i compagni di strada e li utilizzavamo per giocarci. Con noi si aggregava il mio inseparabile cugino, Antonio, compagno di mille avventure e che abitava, ed abita tuttora, nella vicina via Cicerone
Nella stessa strada abitava anche l’accalappiacani municipale, mi pare si chiamasse Catello Esposito. Anche sua moglie si chiamava Catella ed avevano numerosi figli, uno di questi, una estrosa, celebre figura di Castellammare, è infatti il famoso, ‘o Poeta, ma conosciuto anche come, Michele ‘o Scienziato, figura facilmente incontrabile in villa comunale e riconoscibile per il suo abbigliamento vistosamente multicolore. In fondo alla stradina abitava una vedova, che tutti chiamavano, ‘a Bionda, non ricordo il nome, il cognome del defunto marito era Foresta. Mi pare avessero un unico figlio, di nome Antonio, che oggi, se non è andato in pensione, fa il tassista.
Se tra quelli che leggeranno questa storia vi sono antichi abitanti di quella stradina, che per me fu di formazione, mi farebbe piacere se potessero esserci contributi di ricordi di quegli anni Sessanta
Fu in quegli anni che fui protagonista di una rocambolesca finta fuga da casa. Tutto accadde il giorno in cui m’incapricciai di voler fare un giro con la bicicletta, impedito dal mio fratello maggiore, arrogandosi una proprietà che non aveva. Così litigammo, obbligando la mamma a intervenire. Non ricordo esattamente cosa accadde, ma presi la bici e andai a nascondermi sotto la scalinata del palazzo dove abitavamo. Vi rimasi per ore fino a preoccupare la mamma, che lanciò l’allarme. Si mobilitò l’intera comunità di via Cassiodoro, compresi gli operai della fabbrica, lanciandosi alla mia ricerca. Dall’antro della scalinata io vedevo e sentivo praticamente tutto, lasciandomi indifferente, anzi, quasi mi divertiva vedere tutto quell’andirivieni, con gente che entrava e usciva da casa a consolare la mamma in lacrime. Soltanto nel tardo pomeriggio mi decisi, finalmente, ad uscire e di rientrare in casa con la bicicletta, come se nulla fosse. Quando la mamma mi vide e soprattutto quando le dissi dove mi ero nascosto, m’inseguì per tutta la casa armata di una scopa, decisa a rompermela sulla schiena. Scappando, entrai in camera da letto e, sempre inseguita da lei, girai intorno al lettone matrimoniale. Quando mi vidi quasi raggiunto aprii all’improvviso una delle ante dell’armadio per fermare la sua corsa. Non so come, ma nel continuare a correre, la cerniera venne meno ed io mi tirai la grossa e pesante anta appresso, rovinandomi addosso. Cadendo, gridai spaventato e questo fu la mia salvezza, perché in questo modo mi scansai le bastonate. Anche mio padre, stranamente, non se la prese più di tanto per aver messo in subbuglio la strada e la fabbrica, con tanta gente corsa a cercarmi per i quattro cantoni.
Ne combinai delle altre, ma quella fu l’unica che ricordo di via Cassiodoro. Un altro evento importante di quegli anni fu il terremoto del 21 agosto 1962, ma di questo, se i lettori non si sono annoiati, ne parleremo un’altra volta.
Raffaele Scala
Anche io abitante del Rione San Marco, ho i miei ricordi del quartiere con lievi disgrazie su quanto raccontato da Lello. Andai ad abitare nel 1952 nelle palazzine vicino all’attuale chiesa. Era una via di collegamento intercomunale, via Nocera, che portava a Sant’Antonio abate, che attraversava un’estesa piantumazione di aranceti. Unica lampada che illuminava il percorso era una lampada posta ad angolo del fabbricato, a due piani, che è all’incrocio della futura via Cicerone. Le palazzine dell’UNRA CASAS, chiamate le case americane, nacquero dopo la costruzione di tutto il complesso edilizio popolare post campo sportivo. Nell’attuale piazzetta Bracco c’era una baraccopoli (favelas) che usava l’acqua del rivo s. Marco per usi vari. Le scuole elementari erano in due baracche situate negli spazi di alcuni fabbricati e la messa si teneva nel cantinato del fabbricato posto dietro la fila dei negozi. Poi si iniziò a costruire a ridosso della baracca delle elementari maschili (e si maschietti e femminucce erano divisi) una sede per il museo stabiano, opera rimasta incompleta per circa trent’anni. Poi trasformata in scuole elementari. Negli anni sessanta iniziarono la costruzione del quartiere di via Cicerone dopo lo smantellamento della baraccopoli e trasferimento degli occupanti nel quartiere realizzato presso la periferia Nord …….e la storia continua
1 maggio 2017
Ho letto con attenzione questo articolo e si sono risvegliati i ricordi della mia infanzia, pertanto non posso fare a meno di contribuire, in minima parte, a ravvivare il ricordo del rione San Marco dei primi anni ’60. La mia casa natale (oggi ristrutturata) è in fondo a via Cicerone. Ricordo la vasta campagna di mio nonno alle spalle della villa Gabola dove correvo e giocavo liberamente con altri bambini; c’era un vicolo sterrato, alberato, che fiancheggiava lo stadio, lo chiamavano “’o var” dove, di domenica pomeriggio, gli uomini giocavano a bocce, alcune persone si arrampicavano sul muro di cinta dello stadio, non so se per vedere la partita o l’uscita dei tifosi (forse era un evento?). In fondo a questo vicolo c’era la casa di mio nonno (credo vi sia ancora) con un forno a legna sotto una scala dove si infornava il pane per tutta la settimana, di fronte c’era una grande aia e d’inverno si ammazzava anche il maiale. Mia madre mi raccontava che qui girarono una scena del film “calamita d’oro” dove un mio zio faceva una comparsa. Anch’io ricordo una scuola elementare fatiscente sul ponte San Marco che ho frequentato per pochissimi giorni poiché i miei genitori, rifiutandosi di mandarmi nel freddo e nell’umidità, mi fecero studiare privatamente il 1° anno finché non fu pronta la nuova scuola elementare che frequentai per soli 2 anni poiché ci trasferimmo in via Mantiello, l’attuale via Pietro Carrese. Tra gli eventi naturali dell’epoca ricordo un’abbondante nevicata e un’eclissi totale che mi affascinò molto perché salii sul tetto di casa con mio padre. Ora vivo a Ostia Antica (Roma) ma Castellammare rimane sempre la mia città e i ricordi della mia infanzia e della mia gioventù legati ad essa resteranno per sempre nel mio cuore. In questo caso sono felice di averne condiviso qualcuno.
Con simpatia Rosanna Cascone
Mi scrive mio cugino Antonio, e confermato da mia sorella Rosa, che la signora Bionda non aveva un figlio ma tre. Gli altri due si chiamavano, e si chiamano, Stanislao, detto Pippo e Paolo. Sempre mio cugino, dice che l’accalappiacani non si chiamava Catello ma Antonio, detto N’donio o cciracane. Non sono molto convinto di questo, ma approfondiremo.
Colgo l’occasione per ringraziare gli altri due interventi che hanno confermato e completato il mio racconto. E’ vero che la scuola elementare dopo il campo San Marco era in realtà una baracca, che io, fortunatamente, frequentai solo per pochi giorni, prima di trasferirmi nel nuovissimo complesso scolastico del Cicerone. Infatti ricordo ancora l’inaugurazione con tutti gli alunni inquadrati, come tanti piccoli militari, nel grande cortile della nuova scuola, con al centro la bandiera italiana che sventolava alta sul pennone e i discorsi di non so chi. Il mio maestro si chiamava Modestino Perrotta e credo fosse originario della Puglia.
Aspettando altri preziosi ricordi….
Raffaele Scala