Gennaro ed Ena Villani
a cura di Giuseppe Zingone
Nel poderoso volume pubblicato nel 1970 da Piero Girace, Artisti contemporanei, (nella sua veste principale di critico d’arte) compare questa coppia di pittori, padre e figlia, Gennaro ed Ena Villani. Gennaro Villani nasce a Napoli il 4 ottobre 1885 e quivi muore il 25 dicembre del 1948. Nel rileggere la critica descrittiva del pittore, mi è sorto il dubbio che egli avesse trattato o anche scritto qualche notizia relativa alla figlia Ena. Non ci eravamo sbagliati aggiungeremo per completezza in questo articolo la pagina a lei rivolta, subito dopo una galleria d’immagini del pittore sulla nostra città.
Gennaro Villani
Ricordo Gennaro Villani in una vampa di sole. Lo rivedo in quella luce abbagliante della spiaggia del mio paese natio, alto, robusto, tutto vestito di nero, con le lenti a stanghetta, che gli conferivano una certa aria tra dottore e sacerdote. La spiaggia era affollata di bagnanti, ed il sole ardeva maledettamente, battendo implacabile su quei corpi seminudi che la sabbia infuocata cuoceva, rosolandoli come polli al forno.
Egli camminava tra quel carnaio con andatura incerta, soffermandosi di tratto in tratto, e fissando lontano, con lo sguardo tipico dei miopi, ora un gruppo di bagnanti, ora lo stabilimento balneare gremito come un caravanserraglio e che limitava con un taglio netto la visione del mare. Invano le lenti gli facevano da schermo. Procedeva, incantato e stordito, nella grande luce estiva. Sembrava un professore in vacanza. Aveva in sé qualcosa di ieratico e di chiesastico, Lo si poteva scambiare perfino per un pastore anglicano.
Vedete – mi diceva – il mio intento è di mettere tutto, questa luce e questo sole, nelle mie tele. Qualche volta mi riesce. Ma sapeste com’è difficile!
Smetteva di parlare, d’improvviso, socchiudeva gli occhi, e fissava il mare, che rutilava terribilmente come lo scudo del mago Atlante.
Con la luce abbagliante le forme si sgretolano. Le figure diventano nere. Pensate al povero Monet quando s’intestardì a fissare nelle sue tele non solo l’atmosfera della stagione, ma anche l’ora esatta della giornata. Sembrava impossibile. Eppure…
S’interruppe. Gli era passata davanti una bella e giovane donna dalle forme perfette.
Emise un grosso sospiro. Poi mi chiese: A voi piacciono le donne? – e, dopo un poco aggiunse: Anche a me piacciono. Ne ho dipinte tante. Poi con tono malizioso, spiegò: Purtroppo le ho soltanto dipinte.
Ma bastava che un colore vivo gli squillasse davanti per farlo subito ammutolire. Le sue ciglia battevano dietro le lenti con un ritmo insolito.
-Che colori. Che luce! Malauguratamente però questa pittura piace poco ai borghesi. Essi vogliono il paesaggetto piacevole, ben finito come un’oleografia. Si deve pagare lo scotto dell’incomprensione. Avvertivo nelle sue parole una contenuta malinconia, ed anche non poca amarezza.
Era stato a Parigi. Aveva dipinto lungo la Senna: aveva capito la bellezza dei grigi, di certi toni smorzati; e nella sua memoria cantavano con i ritmi di una poesia di Verlaine i paesaggi di Claude Monet.
Si era aggirato per la Ville Lumière, osservando, dipingendo nei luoghi dove avevano operato i grandi impressionisti francesi, dai quali, pur mantenendo inalterato il suo temperamento di pittore napoletano proclive al sentimento ed alla sensualità, aveva tratto non pochi insegnamenti. E Parigi gli aveva affinato la sensibilità ed il gusto.
Infatti alcuni suoi dipinti parigini, nei quali prevalgono toni grigi perlacei e i bianchi stinti, potrebbero reggere il paragone con quelli di Utrillo con il quale egli ha sotto alcuni aspetti, delle affinità.
Fu lui ad inculcarmi l’amore per la pittura. Allora io ero molto giovane, e capivo ben poco delle arti figurative. Ma i suoi discorsi, chiari, pacati, m’illuminavano, svelandomi di mano in mano i segreti della pittura.
Eravamo diventati amici indivisibili. Lo accompagnavo per le spiaggie e le colline di Castellammare, trascorrendo con lui ore indimenticabili. Un giorno egli venne a casa mia e volle farmi un ritratto a bianco e nero che ancor oggi conservo tra le mie cose più care, un ritratto di gusto romantico, dall’aria byroniana, ove ritrovo il me stesso di tanti anni fa. Non appena l’ebbe terminato, con quella sua voce un po’ sorda dalla cadenza lenta, mi disse: Ora mangerò con più appetito. Il ritratto mi soddisfa.
Lo ricordo nelle nostre passeggiate lungo le spiagge assolate: s’incantava a guar- dare i nudi bruciati dal sole o gli effetti di luce sulle acque, I suoi occhi, dietro le lenti, fissavano lo spettacolo insolito. D’improvviso piantava il cavalletto sulla sabbia, apriva la cassetta dei colori, ed incominciava a dipingere con una foga impressionante. Tutto a un tratto, mentre dipingeva, s’irrigidiva come una statua, tenendo il pennello a mezz’aria davanti agli occhi. Stava così quasi un minuto, durante il quale sembrava gli fosse mancato perfino il respiro. Poi, subitaneamente, riprendeva con maggior furia.
Da quelle soste sulle spiagge nascevano di giorno in giorno i suoi mirabili paesaggi vibranti di luce, Dopo aver terminato, fissava a lungo il suo lavoro e mi chiedeva: – Che ve ne pare?
Era un pittore impressionista. Dipingeva come in trance imprigionando la luce dei pomeriggi estivi. Parigi gli aveva insegnato molte cose; ma egli non si lasciò mai influenzare dalle mode della Ville Lumiere. Restò napoletano. Le sue impressioni che potrebbero ricordarci sia pure alla lontana, quelle di un Monet o di un altro pittore impressionista francese sono tutte o quasi caratterizzate da un tono elegiaco, da una vena sentimentale: i cieli grigi, la luce dorata dei pomeriggi invernali, le marine autunnali, la campagna durante la vendemmia, i porti ingombri di velieri e di barche nel giuoco della luce che squarcia le nuvole, i cortili rustici, la prima neve, Poteva considerarsi uno degli ultimi bohemien, un romantico per il quale la natura era il gran libro da cui trarre le parole e le immagini del suo poetare. Oggi la sua giovanissima figliuola Ena continua l’opera paterna, perseguendo con fede gli stessi ideali.1
Ena Villani
Ena Villani sembra una gitana spagnola, di quelle che danzano il «flamenco» e che s’incontrano nel «Patio andaluza Siviglia». Suona la chitarra e guida la macchina, dipinge e scrive. Ma parla poco. Tutto quel che le si agita dentro lo riversa nei suoi diari e nei suoi dipinti, nei quali ritrovi la sua vera natura, esuberante e carica di energia. Anni fa – ella aveva quindici anni, forse – diedi una scorsa alle cartelle dei suoi disegni ed ai suoi diari. Rimasi sbalordito. Un segno infallibile. Una maturità di pensiero.
Ena Villani ha esordito in arte a sette anni, con un gruppo di piccoli dipinti, che figurarono accanto a quelli di suo padre, il maestro Gennaro Villani. E fu una sorpresa per il pubblico e per i critici, che avvertirono in quei primi lavori un autentico temperamento pittorico.
La vidi riapparire nelle mostre collettive con delle tempere chiare, gaie, spregiudicate, di un brio e di una vivacità alla Dufy; tempere che alludono a racconti e a descrizioni della nostra vita di oggi, ove vedi affiorare spesso l’umorismo, un umorismo tutto partenopeo, garbatamente ironico e malizioso.
Oggi ella è una pittrice in tutti i termini: disegnatrice scaltrita, che usa il colore con arditezza, ottenendone effetti impensati.
A darne testimonianza bastano le tempere «Bois de Boulogne» con quei grigi raffinati, degni della tavolozza di suo padre, il «Vicoletto di Lacco Ameno», «Agosto ischitano», «La strada del Vomero», «Il giardino» con quei colori squillanti o sommessi, indicativi di un sentimento lirico e elegiaco.
Ena Villani ha un suo linguaggio ed un suo modo particolare di vedere il mondo e le cose.
Ho chiesto alla giovanissima pittrice: – Qual’è il tuo programma per l’avvenire? –
Con prontezza mi ha risposto: – Dipingere, disegnare, illustrare libri, scrivere, suonare la chitarra e viaggiare. –2
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Articolo terminato il 20 novembre 2023