'o vrasiere

‘O vrasiere

Gli anni ’30 a Castellammare
( nei ricordi dello stabiese Gigi Nocera )

Breve premessa dell’autore:

Caro Maurizio, come promesso ti mando un altro mio ricordo (Gli inverni a Castellammare negli anni “30”). Non mi resta quindi che fare a te, alla tua Famiglia, agli amici tutti che frequentano il tuo, il nostro Sito, gli auguri più sinceri e cari.

Un abbraccio, Gigi.

 ‘O vrasiere

Nnant’ ‘o vrasiere cummigliato ‘e cennere
Simmo rummase tutta na jurnata,
sentenne ‘a notte a ppoco a ppoco scennere
‘ncopp’ a sta casa fredda e abbandonata.

Nce ha cuòvete a’ ‘ntrasatta sta vernata!
Tengo n’aniello ‘argiento; o vaco a vennere
P’avè n’aceno ‘e fuoco. Stai gelata,
e cchiù te parlo, e meno me può ‘ndennere.

Vierno passato nun facette ‘a neva?
‘A casa tale e quale, senza fuoco,
ma pure – te ricorde? – ‘o fuoco ardeva.

E ardeva dint’a ll’uocchie tuoie lucente,
dint’ a ll’anema toia che a poco a poco
s’è fatta fredda, muta, ‘ndifferente.


'o vrasiere

‘o vrasiere

Questa bella poesia di Libero Bovio mi ha riportato indietro negli anni, quando negli anni ’30 l’inverno a Castellammare si presentava col suo freddo e noi l’affrontavamo con rimedi poco adatti: c’‘o vrasiere! Poiché penso che ne esistono ancora pochi in giro perché in disuso e quindi per i più giovani che forse non ne hanno mai visto uno cerco di descriverlo.
Normalmente era di rame, rotondo, col fondo basso e con il bordo che poggiava su una base di legno, anch’essa rotonda, sollevata dal pavimento una decina di centimetri da quattro supporti sempre di legno.
Dentro questo recipiente bruciava lentamente della carbonella. Per evitare che i bimbi più piccoli, o anche più grandicelli, ma maldestri nei giochi (cioè quei bambini che tenevano “l’arteteca” ) ci cascassero dentro, il tutto era coperto da una specie di cupola che poggiava sulla base di legno. In molte occasioni su questa cupola si mettevano ad asciugare dei piccoli indumenti. Questa protezione però molte volte non impediva che qualche bambino ci cascasse dentro con le mani o col sederino. Allora erano corse al San Leonardo, l’ospedale che si trovava nella Piazza del Municipio.
A sera, quando si era tutti in famiglia, ci si radunava intorno a questo braciere con i piedi appoggiati sulla pedana di legno. Ci si illudeva di trovare un po’ di caldo in modo da attenuare in parte quel freddo che c’eravamo portato addosso tutto il giorno, penetrandoci nelle ossa. Ma quale sollievo poteva darci una così scarsa fonte di calore? L’unica vera soddisfazione che si aveva in quei momenti era che attorno a questo braciere la famiglia era tutta riunita e si scambiava pensieri, notizie e perché no qualche pettegolezzo bonario sull’uno o sull’altro della famiglia o dei conoscenti. Si commentavano i fatti accaduti nel vicolo, nella via, a questo e a quelli.
Alla fine dell’inverno il risultato era che le dita dei piedi e delle mani, dolevano per i geloni che si erano formati nel frattempo.
Il braciere, ‘o vrasiere, allora questi erano i rimedi per combattere i rigori dell’inverno; è pur vero che durava poco, ma sempre inverno era! Noi meridionali ci siamo sempre illusi che nelle nostre zone non fa mai freddo, il tempo è sempre bello, che c’è sempre il sole. A tale proposito mi viene in mente una scena della commedia di Eduardo “NON TI PAGO”.
Il protagonista principale, Ferdinando, nel commentare la fortuna sfacciata del futuro genero che vince sovente al lotto, e che con le vincite non si fa mancare le comodità in casa e fuori, giudica inutile l’acquisto di un ombrello affermando: “Ma a cche serve, a Napule chiove pure? A Napule nun chiove mai!”. Non si poteva esprimere più chiaramente il concetto che abbiamo (avevamo) del tempo meteorologico dalle nostre parti.
Per fortuna, da qualche tempo anche noi abbiamo capito che ci sono mezzi più adatti del braciere per combattere il freddo e ce ne stiamo dotando. Anche perché le condizioni economiche attuali di molte famiglie lo consentono. Ma anche se questi mezzi fossero stati noti allora, pochissimi avrebbero potuto permetterseli. Allora con quelle scarse entrate si stentava a tirare avanti; i figli erano sempre tanti e prima si pensava a sfamare loro, tutto il resto veniva dopo.
Nei miei “ricordi”, se qualcuno ha avuto la bontà e la pazienza di leggerli, ho quasi sempre rimarcato queste precarie condizioni economiche. E’ vero, ho rimpianto il modo che la gente aveva di rapportarsi con gli altri, con gli amici, con le famiglie; il modo di vivere più semplice, senza tante sofisticherie, con schiettezza e tanta solidarietà, genuinamente. Le famiglie non si sentivano mai sole. La vita come è vissuta ora, convulsa, complicata, difficile, competitiva al massimo rende difficile coltivare quei rapporti che una volta venivano naturali, spontanei.
E’ chiaro quindi che con questi ricordi si rimpiange il modo di vivere, non certamente la miseria di allora, per la quale anche la mia famiglia ha dovuto sopportare rinunce, sacrifici e affanni.

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